Racconti di Cinema – Re per una notte
Dobbiamo ammetterlo, il percorso artistico, quindi filmografico di Scorsese, stupisce per varietà e, potremmo dire, variopinta destrezza. Nel 1982, in sordina, dopo il crudo iperrealismo di Toro scatenato, dopo il suo suadente bianco e nero ipnotizzante e tetro per cupezza cromatica, spiazzando tutti, esce con questo colorato, straordinario The King of Comedy, e va incontro a un insuccesso abissale, dal quale si riprenderà solo col successivo, scoppiettante Fuori Orario. In entrambi i casi delle acide commedie nerissime ma, a differenza di Fuori orario, che piacque subito parecchio, Re per una notte, all’epoca fu decisamente snobbato dalla Critica e passò sotto silenzio anche presso i suoi ammiratori. Invece, col senno di poi, va ammesso che, nonostante i suoi difetti, una certa “monotonia” narrativa (il cui significato spiegherò poi…) e qualche scena forse eccessiva, Re per una notte rappresenta una pellicola che era notevolmente avanti coi tempi, e per questo probabilmente alla sua uscita affatto compresa e respinta, come si dice in gergo…
È la bizzarra storia di un comico, Rupert Pupkin (un De Niro in gran forma sardonica, che veste giacche impossibili e sfodera scarpe che sono un pugno in un occhio), che si crede un genio, e forse lo è davvero. Pupkin idolatra Jerry Langford (un cupissimo e quasi inquietante Jerry Lewis, che qui abbandona le sue mimiche da “picchiatello” per offrire una prova recitativa misuratissima e spaventosamente efficace), showman di un famosissimo spettacolo televisivo americano. Dopo averlo approcciato, Pupkin s’illude che Langford possa offrirgli la grande occasione di tutta una vita per poter mostrare al mondo il suo talento. Ma aveva frainteso tutto e, in preda alla frustrazione, arriva a sequestrarlo, costringendo i produttori della trasmissione a concedergli i suoi tanto agognati minuti di gloria. Verrà arrestato, gli sarà commutata la pena da sei anni di reclusione a due anni e mezzo, ma nel frattempo, dopo quella apparizione fulminante, diverrà una star venerata, a cui dedicheranno anche una biografia per un bestseller che spopolerà nelle librerie.
Un film profetico, una satira del mondo dello spettacolo retta da due eccellenti interpretazioni, con un De Niro volutamente sopra le righe, “fastidioso” e immarcescibile nella sua lucidità folle da strampalato personaggio che vuole ottenere successo a tutti i costi, e un Lewis ottimamente calibrato che ritrae in modo perfettamente “arrogante” la figura di un uomo diviso a metà, tanto spassoso, con la battuta sempre pronta e veloce, applaudito sulla scena, quanto triste e riservatissimo nella vita privata, una vita che forse gli sta stretta e che si contenta illusoriamente della gioia effimera del suo “status” d’intoccabile, donandogli al contempo sia la gioia di una carriera invidiata quanto l’amarezza ineludibile della presa di coscienza che il suo lavoro, se da una parte gli ha regalato soldi e immensa visibilità, dall’altra parte l’ha relegato a “pupazzo” negli occhi della gente, di chi lo guarda estasiato, idealizzandolo in maniera distorta, e lo ammira oltre i suoi reali meriti. Sì, perché il film è anche una riflessione sul falso culto a stelle e strisce del successo, sul suo ambiguo rovescio della medaglia. Siamo convinti, insomma, pare dirci Scorsese, che le persone di cosiddetto successo siano felici? E questo successo, peraltro, è simbolo di un valore concreto o è soltanto la proiezione dei sogni piccolo-borghesi della gente comune che, nella sua fantasia, crea e smonta divi a piacimento, secondo i desideri volubili del momento? Il film è questo, lo specchio di una società pazza come Rupert Pupkin, uno sberleffo cinico sulla mitologia faceta, sulla passeggera, vanesia, peritura, finta cultura della televisione e dei suoi “totem”.
Dicevamo, però, il film ha anche dei difetti o, forse, in queste difettosità, consistono anche i suoi pregi. Sì, perché fu manipolato dai produttori che tagliarono molte scene. Se da un lato si nota una certa sbrigatività nei raccordi, alcuni ingiustificati, che possono indurre a una certa, iniziale perplessità, d’altro canto, involontariamente, questo suo essere “stringato” l’ha reso un film secco e dunque limpidissimo, che va dritto al punto senza girarci troppo attorno, dal ritmo brioso e angoscioso che regge benissimo le sue quasi due ore di durata senza mai annoiare nonostante sia quasi tutto parlato e girato perlopiù in interni.
Nota di merito, inoltre, per la “bruttona” Sandra Bernhard, campionessa di autoironia, che seduce e s’illude di ammaliare Langford in vesti ridicolmente “sexy” da esilarante fatalona inevitabilmente imbranata.
Probabilmente, un altro lungimirante capolavoro di Scorsese.
di Stefano Falotico