Detroit di Kathryn Bigelow secondo Anton Giulio Onofri
Copio e incollo la sua pertinentissima recensione controcorrente da Close-Up.
Un pasticciaccio brutto successo a Detroit nel 1967 è la base d’ispirazione per una sceneggiatura firmata da Kathryn Bigelow e Mark Boal, coppia rodatasi con The Hurt Locker(vincitore di 6 premi oscar nel 2010) e Zero Dark Thirty. L’irruzione della polizia in un locale che spacciava alcolici senza licenza e gestito da neri provocò una rivolta sanguinosa che, messa a ferro e fuoco mezza città, causò la morte di oltre 40 persone. Detroit, che inizia con una breve, brutta e confusa sequenza animata che introduce il contesto storico della storia illustrata nel film, si concentra su un episodio di cronaca secondario avvenuto realmente durante gli scontri, quando in un motel gestito da neri tre ragazzi furono barbaramente picchiati e freddati da tre poliziotti bianchi e una guardia di sicurezza dal colore della pelle uguale a quello delle vittime. Tutti assolti, i razzisti assassini, al processo che ne seguì due anni più tardi.
Va purtroppo registrato che, al di là del nobile scopo di colmare un vuoto e dedicare un’opera cinematografica ambiziosa a un episodio particolarmente delicato della storia americana, Detroit risulta infestato di tutti gli usuali cliché delle storiacce del genere (non si contano i ‘motherfucker!’, i cattivi sono aguzzini da manualetto, e i neri fanno faccine afflitte e cantano gospel…) e privo di quella reale tensione cinematografica che Kathryn Bigelow era in grado di emulsionare nei suoi lavori iniziali, fino a Point Break compreso. Nonostante la benevolenza dei giudizi critici statunitensi, è difficile credere che questo suo ultimo film conquisterà il cuore del grande pubblico: noioso nel suo inerte girare intorno ai drammatici eventi narrati, costringe lo spettatore per ben 140 minuti a inseguire con gli occhi una nevrotica e fastidiosa macchina da presa, tutta scatti e zoomate veloci in avanti e all’indietro, con cui la regista tenta di evidenziare lo spessore tragico di eventi che purtroppo non riesce ad allestire in una messa in scena efficace e di adeguata statura drammaturgica. Soffia per tutta la visione la presunzione di molti attuali cineasti USA attualmente in attività, convinti di essere i depositari unici di una certa qual epica universale contemporanea che li induce a conferire alle proprie tragedie nazionali passate e recenti caratteristiche dell’archetipicità delle opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide: segnale forte e chiaro di una cultura liberal in pesante crisi espressiva e messa a dura prova dal confronto con le grossolane derive della destra trumpiana.