La ruota delle meraviglie, recensione
Il crepuscolo giallo-ocra dei focosi sogni perduti nel tramonto marino di amori impossibili
Torna Woody Allen, consuetamente ogni anno e stavolta, mi spiace dirlo, andando controcorrente rispetto ai giudizi italiani, fallisce. O, perlomeno, non colpisce. Sì, in questo giudizio mi associo alla Critica statunitense, che il film l’ha demolito. No, non lo stronco appieno, ma non mi ha entusiasmato, anzi, l’ho scordato 5 minuti dopo i titoli di coda.
Un film ambientato negli anni cinquanta, 4 personaggi potremmo dire in cerca d’autore, un autore che qui manca, e la sceneggiatura arranca, zoppica, stenta. È un Allen che non fa ridere, più “serio”, ma non è questo il problema. Siamo stati abituati anche all’Allen senza risate, e ne eravamo andati in visibilio. Qui, a differenza delle molte prove recenti corali di Allen, si restringe la vicenda a quattro personaggi, appunto, una cameriera che vorrà ricordar a sé stessa di essere tale e, verso la fine, dirà ostinatamente, essendo state le sue ambizioni d’attrice fustigate dalla necessità di lavorare, e forse anche dalla mancanza di talento, che “recita” proprio la parte della cameriera, ruolo che peraltro le riesce malamente, perché è una vita che le sta stretta, che la soffoca, che vorrebbe definitivamente ripudiare per esplorare altri lidi, e così vive una breve love story disperata con un bagnino che ha smanie artistiche e vorrebbe fare lo scrittore. Ginny e Mickey, incarnati da Kate Winslet e Justin Timberlake. Ginny è però sposata col rozzo giostraio Humpty (un Belushi debordante, grasso e rubicondo, iracondo, ubriaco e triste, nevrastenico e forse manesco). All’improvviso, va a vivere a casa di Humpty e Ginny la giovane Carolina, la figlia di Humpty che il padre non vedeva da anni, e che ora è costretta a chiedere rifugio perché ricercata da alcuni gangster che vogliono ucciderla. Ginny crederà di vivere l’amore della sua vita e, nella passione verso la giovinezza ambiziosa di Mickey, s’illuderà di evadere da una squallida routine che l’angoscia, che l’ha pian piano intristita e impoverita nell’animo. Ma Mickey s’innamorerà proprio di Carolina, tradendola a ciel sereno… un colpo di fulmine nella decadente Coney Island martoriata dagli acquazzoni. Ecco che allora scatta l’arma della gelosia, delle più crudeli e, come in una tragedia greca, Ginny si trasformerà, da donna disincantata eppur dolcemente, quasi fanciullescamente incantatasi nell’aspirazione di una vita migliore e più felice, a spietata arpia, a strega di Macbeth e il suo terribile gesto imperdonabile, tale anche per la sua coscienza smarrita, malvagio e irreversibile sarà l’innocente, disgraziato ultimo atto di una vita che, strozzata dai rimpianti, si sfogherà nel “monologo” viscido dei suoi più perfidi istinti.
Il film è tutto qua. Certo, c’è la casupola illuminata da Vittorio Storaro, che si compiace oltre ogni limite “legale” a cambiar le lambiccanti, fluorescenti luci, accendendole di giochi di colore, addolcendole, increspandole e spegnendole di tonalità infuocate, poi languide, smorte e opache, livide e mielose, ci sono alcuni suggestivi squarci nella penombra, ci sono sapienti e studiati piani sequenza per dar dinamismo a una storia appunto teatrale, a un kammerspiel cupo con qualche sprazzo di radiosità, con qualche plumbea atmosfera poi di getto squarciata d’attimi di bellezza come la frase di Mickey a Carolina, la luce dopo la pioggia… E c’è la morale finale, secondo cui dobbiamo, volenti o nolenti, guardarci allo specchio, nella brezza e nelle eb(b)rezze di una vita sempre sfuggente che macera, lacera e brucia l’anima, e dobbiamo guardare i nostri fallimenti senza neppure piangerci sopra, ma osservando la nostra esistenza con asciuttezza, mentre altri istanti volano via e, in questo spaventoso e meraviglioso giostrarvi, cogliere la pura, piacevole fugacità del tempo che scorre. Inesorabilmente pungente.
Allen è sempre Allen, ed è dunque elegante, fa riflettere, e gira con stile.
Ma non basta. Il film non rimane, non entra nel cuore, non smuove alla commozione, forse più di tanto non emoziona. E, aridamente, è stato solo un godibile, dolceamaro ritratto di vite, come quelle di tutti, che volevano di più, che un tempo alte volavano, e ora non più si amano nonostante vogliano amare.
E il mare, e il fuoco…
di Stefano Falotico