Nell’anno nuovo, consacratevi all’Arte, fate di voi un capolavoro e smettetela di essere ipocriti e piccoli
Ora, è buona usanza, fa parte della tradizione, essere tutti prodighi di auguri in vista dell’anno nuovo, e questa sera molte persone, non certo io, brinderanno all’avvenire, che credono illusoriamente sarà speranzoso e foriero di novità “entusiasmanti”, e in quest’illusione protrarranno, reitereranno il loro patetico esorcizzare la morte dietro effimere festicciole, buone soltanto a eccitarli estemporaneamente e a distrarli dalle loro oscene preoccupazioni quotidiane. Al che, gli studenti celebreranno la chimera di un futuro radioso, in cui si augurano e augureranno possano evolversi come uomini e affermarsi nelle loro ambizioni, sin ad ora raffrenate paurosamente dai genitori castratori che li han sempre, ricattandoli, inibiti nelle loro più intime aspirazioni, coprendoli d’insulti perché non hanno quasi mai rispettato i tediosi, asfittici, programmatici piani regolatori della vita che, appunto, speravano per i loro figli. Che orrore!
Da sempre mi son combattuto affinché chiunque, chicchessia potesse imporre la sua giusta, nietzschiana volontà di potenza, rifuggendo dagli schemi, dal perentorio e classi(ci)sta percorso a tappe, che tanto invero annichilisce gli spiriti sanamente belli nella loro freschezza “acerba”, ribelli, dunque più creativamente emancipati dalle rigide convenzioni, indottrinandoli a una falsa, ammorbante, tristissima giustezza di facciata.
Ah, i genitori. Hanno sempre maledettamente sofferto di egoismo, proiettando alla lor sciagurata, disgraziatissima prole i loro sogni. Sogni che videro bruciare perché dovettero adattarsi e incamminarsi, instradarsi alla mediocrità, fatta di un lavoretto per tirare a campare, di una (in)felicità coniugale spos(s)ante le frustrazioni reciproche di quel totem piccolo-borghese chiamato, declamato “AMMMore!”.
Se andate da un genitore medio e gli domandare cosa vorrebbe, cosa desidererebbe dai suoi pargoli, vi risponderà prevedibilmente, “pedagogicamente”: vorrei che i miei figli crescessero felici, armoniosi, sereni, che si realizzassero, che si affermassero, che fossero pieni di amici con cui si diverto/ano, che progettino leggiadramente il loro futuro, solleticandosi piacevolmente in una contenta socialità che ami a cuor aperto la vita. No, i nostri figli non devono essere negativi, ma guardare con estrema positività e spensieratezza gaudente e gustosa (al)la vita, affrontandola con onesta, comune partecipazione e vicendevole solidarietà.
Insomma, il ritratto inattendibile, davvero poco realista di un’esistenza edulcorata, dunque bugiarda e meschina, ipocrita e paracula, miseramente delirante d’un fatuo, inconsistente abbagliarsi nell’illusione, appunto, che la vita sia-non sia un (in)autentico, stolto miraggio.
Perché, come noi uomini di mare e lupi di birre sappiamo, la vita non è sempre, quasi mai facile contentezza, non è una canzonetta di musica leggera, non è una chiacchiera né una caramella al saccarosio. Quindi, smettetela di dolcificare la realtà dietro una visione buonista e mentitrice che rinnega scioccamente la sua concreta ispidezza, la sua ruvida rugginosità, la sua dura crudezza e anche la sua irta spericolatezza.
D’altronde, lo sostengo da tempo immemorabile, e non immemore, ma soprattutto personalmente irrevocabile, che siamo, ahinoi, invasi da quella nuova, appiattente categoria sociale degli psicologi, personcine “perbene” che pigliano soldoni a non finire per “educarti” a una percezione della vita fintamente estatica, fatta di vomitevole lietezza, di conformi, dunque repellenti, orridi precetti simmetricamente conformi a un’idea, del tutto arbitraria e menzognera, di equilibri “euforici”, di concordanze emozionali mendaci e concertanti a una concezione del bello e del godimento assolutamente, subdolamente parruccona ed edonistica, improntata a una pacata serenità d’animo agghiacciante e spettrale, perché come detto lontana dalla vita vera, che non è solo gioiosa, eterna felicità, ma anche melanconia acuta, tristezza e persino tristizia, mestizia, malinconica rabbia, afflizione, dannazione e, vivaddio, inquietudine di frizioni e alle volte sbagliate (re)azioni.
Quindi, la smettessero questi qua di voler “regolare” la testa, che in quanto tale e pen(s)ante deve, sì, esser lacera, spremuta, sofferta e lancinante nel mordere la vita nelle sue infinite sfaccettature complesse, obiettive e dolorose.
Andassero a prendere per il culo i fessi che hanno bisogno di abboccare, e di essere imboccati, alla nuova, immonda filosofia del quieto vivere stronzo e fluentemente “giusto”.
Evviva i trasgressori dell’ordine “prebiotico”, i costruttori delle proprie fragilità, gli esaltatori della sofferenza e delle rinascite, delle catarsi e gli adoratori del loro catarro, che è il frutto del proprio ribollire d’ire san(t)e, del proprio lacrimar intestino di veridicità, e non è l’escrementizia illusorietà delle fantasticherie utopistiche, degli irrealistici inganni a base di compresse per tamponare i nostri slanci saviamente “aggressivi” nella svelata trasparenza e a sua volta rivelazione del nostro complicato, angustiato, combattuto io profondo che, in quanto profondo, non si può contentare delle più bieche frivolezze beote e credulone… Ah, evviva l’animo che s’infuria, si macera, lotta, scalcia, e non facilmente si adatta a un mondo di commessi viaggiatori, di predicanti moralismi e di predicozzi moraleggianti.
Meglio essere “storti” come me, dunque alle volte incappar nel torto e non mangiar nessun pezzo di torta, perché la stortura è, sì, forte tortura ma anche obiettivo, lucido tormento, l’unica via pura, per quanto contorta e intricata di dubbi, per il raggiungimento schietto e sentito della saggezza e della verità. Che, in quanto tale, è sempre dubbiosa, permalosa essa stessa, difficile e spesso poco letiziosa.
La ricerca della verità induce a guardarci dentro, a criticarci, a spellarci, a disossarci, a sanguinare e piangere. Ma è, ripeto, l’unica strada giusta, franchissima e leale.
Vivete pure di complessi di colpa, sarete come Scorsese e De Palma.
Altro che stronzate.
L’Arte più alta e anche astratta non è quasi mai consolatoria, è per sua natura “violenta”, cinica in quanto espressione del totale romanticismo irriverente, sprezzante, libero e selvaggio, irruente, burrascoso, contradditorio e animato dall’essere umani. E, in quanto umani e non robot, siamo immensamente affascina(n)ti nell’errare, in senso errante e anche erroneo.
di Stefano Falotico