Good Time, recensione
La prova di maturità di un eccellente Robert Pattinson in un thriller magnificamente avvincente
Ebbene, allo scorso Festival di Cannes, in Concorso è passato questo film… alla sua presentazione non riscosse, detta sinceramente, molti consensi e infatti fu snobbato e trascurato dai premi. È invece il classico, esemplare sleeper, uno di quei film che col tempo, e nel giro di pochi mesi, è salito vertiginosamente in auge presso i cinefili più esigenti e attenti, conquistandosi in un’immediatezza folgorante lo status di cult. Un’imperterrita, meritatissima ascesa per un film magnifico, veloce, lisergico, senza un attimo di noia, schietto, poetico, un viaggio immersivo al cardiopalma in una notte incendiaria tutta da gustare e bersi d’un fiato.
Una squallida rapina in banca, ad opera di due fratelli, finisce male. Uno è il personaggio di Pattinson, uno sbandato senz’arte né parte, che si “arrangia” con questi pericolosi espedienti, l’altro è un ragazzo con disturbi mentali. Ed è quest’ultimo a farsi incastrare dai poliziotti e finire in prigione.
Così, il fratello “sano”, disperatamente, in un crescendo di tensione palpitante e suspense geometrica, cercherà di escogitarle tutte per salvarlo, in una corsa contro il tempo di un’allucinante, tambureggiante odissea notturna, tra fughe rocambolesche, ospedali spettrali, clacson e sirene della polizia, sguinzagliando il suo ardore persino in un parco divertimenti “psichedelico” negli antri bui degl’imprevisti più assurdamente grotteschi, inaspettati, spiazzanti e dai risvolti incredibili.
Ecco allora che le musiche di una colonna sonora impazzita scandiscono l’escalation di questo gioiello cinematografico caratterizzato dalla stramberia, incastonato nel magrissimo volto apparentemente innocente di un Pattinson che calza a meraviglia, che per tutto il film ostenta una paradossale sicumera che non fa mai trasparire attimi di titubanza o turbamento, una sfinge impassibile di trepidazioni e spasmi “cardiaci impossibili” e contradditorie emotività scolpite nella fragilità della smunta nervatura della sua umana, commovente fragilità. Due solitudini consanguinee, la sua e quella del fratello ritardato, inseparabilmente in osmotica empatia. Nessuno dei due può fare a meno dell’altro e la pellicola, per certi aspetti, assomiglia a una tragica, delicata storia d’amore fra due figli di nessuno, in un mondo pervaso dal degrado urbano, assillato da tutori sociali, da psichiatri dai modi gentili e perfidamente invece mostruosi nel lapidare, infrangere le purezze, nel plastificarle e volerle rinchiudere in claustrofobiche dimensioni costrittive e violentissimamente subdole. Assassini delle coscienze mascherati da “medicatori” in una società allo sbando, allo sbaraglio, pronta a punire gli imperdonabili sbagl(iat)i.
La storia di un fuggitivo incosciente, preda della spericolatezza sfrontata e anche arrogante della sua anima in rotta di deragliamento perenne. Un’avventura tutta in una notte, memore di John Landis, con echi scorsesiani alla Fuori orario. Un after hours brutalmente, volutamente, insistentemente grezzo, caleidoscopico, illuminato a sprazzi da luci fluorescenti, che paiono afferrare in modo sincopato e dinamico la fuggevolezza e la frammentarietà eloquente d’istanti confusi, come in un continuo, appassionante videoclip acidamente intriso di temerarietà, inesorabilmente crudele, romanticamente tagliente come una poesia filmica dalle atmosfere voraci e vampiristiche.
Film col botto su due fratelli emarginati, diretto dagli intrepidi, coraggiosi e innovativi brothers Safdie, e proprio il fratello Benny interpreta sorprendentemente la parte del ragazzo ritardato.
Fotografia da paura, “sporca” e granulosa, al contempo nitidamente pulita dell’eccellente Sean Price Williams.
E un Pattinson sempre più bravo e impeccabile.
Siamo dalle parti del capolavoro.
di Stefano Falotico