Racconti di Cinema: L’incredibile vita di Norman con uno strabiliante Richard Gere

Norman Richard Gere

A fine dello scorso anno, a passo felpato, potremmo dire, dopo gli apprezzamenti entusiasti della Critica americana, è uscito da noi questo film, L’incredibile vita di Norman, anche se il titolo originale, Norman: The Moderate Rise and Tragic Fall of a New York Fixer, sintetizza decisamente meglio la parabola balzana dell’imprevista ascensione ambiziosa del piccolo, insignificante uomo qualunque della vicenda, i cui sogni vanno in frantumi in una progressiva discesa all’inferno.

Questo film è bellissimo, e ancora una volta la lungimirante Sony Pictures Classics si rivela prodigiosa nel saper scegliere magnificamente le sue pellicole. Una perla demodé rispetto al Cinema convulso, oggi imperante, dalle atmosfere rarefatte, buie, claustrofobiche, illuminato da invenzioni registiche graziose, con squarci di delicata poesia quotidiana, sorretto da un Richard Gere splendido, trafelato, imbruttito, con una coppola impresentabile a incorniciargli i capelli bianchissimi e dal brutto taglio, un personaggio che potrebbe ricordare tante “macchiette” di Alberto Sordi, un uomo che gironzola per una fredda New York invernale, e tra goffaggini, gaffe e indisponente smania di volersi ritagliare un ruolo importante nella società, dopo tanti tentativi falliti di una vita anonima, riuscirà ad avvicinare un politico israeliano e ne diverrà il consulente speciale, il consigliere di fiducia, il suo prezioso confidente. Sì, lo pedina dopo una conferenza, lo guarda entrare in un negozio di dolci e in modo sgradevolmente ruffiano, come il cioccolato più appiccicaticcio, ne diventa amico. Quel politico farà strada, molto, arriverà a occupare il vertice più alto della scala gerarchica, come dice lui, il posto migliore della ruota panoramica della vita, di questa nostra giostra altalenante.

Ecco allora il cambio di prospettiva nella sua vita, la vita di Norman Oppenheimer, la sua strategia untuosa si è rivelata inaspettatamente vincente, e la sua esistenza, sin ad allora passata quasi a tutti inosservata, mirabolante si riscatta in un sussulto di dignità ritrovata. Un uomo dal profilo basso, che discretamente, in maniera untuosa e sottilmente viscida, agguanta la sua celebrità da sempre vanamente inseguita.

Ma non è tutto oro quel che luccica e allora assisteremo all’inesorabile sua disfatta, perché c’è stato qualcosa di losco e corrotto nella sua ascesa. I conti non tornano e scoppia lo scandalo. È lui l’uomo di affari venuto dal nulla che ha contribuito in modo assolutamente sospetto alla realizzazione dei sogni di quel politico, ora tanto fanfarone ed esaltato, intoccabile.

Sì, film di sogni, di vite invisibili in cui si riaccende la luce, film di attori perfetti, del solito impagabile Buscemi, di una sempre più emaciata e inquietante Charlotte Gainsbourg, del serpentesco Michael Sheen, folgorato dall’apparizione ambigua di Hank Azaria, in un cameo fulminante e rivelatorio, ma soprattutto dominato, ripetiamo, da un Gere invecchiato, inedito, straordinario, a cui fa da spalla gigantesca un bravissimo Lior Ashkenazi.

E l’israeliano Joseph Cedar dirige e scrive un gioiellino da vedere e rivedere, confermandosi talento da tenere perennemente d’occhio, dopo le nomination a Miglior Film Straniero delle sue pellicole precedenti.

Che graziata, delicata concordanze di armonici volti intagliati in questa fascinosa pellicola, mistura leggiadrissima di colori, dialoghi scritti da dio, e un ritmo sapiente, orchestrato fra giuste lentezze, “riflessioni” caute della macchina da presa, furtiva e spiona delle più apparentemente ordinarie espressioni, e una New York “ebraica” raramente descritta con tale finezza ed eleganza formale.

 

 

di Stefano Falotico


 

 

 

 

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