Racconti di Cinema – Gli invisibili con Richard Gere
Oggi voglio parlarvi de Gli invisibili, un film passato quasi sotto silenzio quando uscì in Italia, arrivato con due anni di ritardo. Sì, negli Stati Uniti fece il suo debutto nelle sale nel 2014, mentre da noi, distribuito da Lucky Red, è stato presentato al pubblico, con scarso successo, ripeto, solo il 16 Giugno del 2016, in un periodo pressoché tardo-primaverile in cui quasi nessuno va al cinema.
Sto parlando de Gli invisibili, anche se sarebbe più doveroso e propriamente più pertinente, come spesso capita, chiamarlo per il suo vero titolo, molto più azzeccato, quello originale, Time Out of Mind, cioè il tempo fuori dalla mente, o meglio anche nella mente, negli spazi temporali del proprio vissuto, nella prigionia imbattibile delle proprie precarietà esistenziali, delle dolenze emozionali, dell’esperirsi e inasprirsi nell’anima consunta e lacerata giorno dopo giorno, in giorni che come una processione ininterrotta proseguono melanconicamente, senz’apparenti vie d’uscita. E ci si trascina stanchi, abbattuti, nel gelo scorticante d’un grande freddo emotivo.
Il film segna la prima collaborazione, la prima combo, come si dice oggi, fra il regista Oren Moverman (Oltre le regole – The Messenger, Rampart) e Richard Gere, due che immediatamente si sono trovati in perfetta sintonia, collaborazione fruttuosa e stimolante che continuerà poi nel discutibile The Dinner e per L’incredibile vita di Norman, del quale Moverman è stato però “solo” produttore.
Ora, prima di parlarvi del film più dettagliatamente, credo sia necessario soffermarci nel fare una considerazione sulla carriera di Richard Gere, soprattutto per la piega che sta prendendo inaspettatamente negli ultimi tempi. Come da lui stesso dichiarato in recenti interviste, questo divo che ha incantato e fatto innamorare migliaia di donne di tutto il mondo per la sua elegante allure, per la sua bellezza da gentleman incontrastato, per il suo fascino indubbio e per sempiterno sex appeal, è stato escluso pian piano dallo star system e oggi sta cercando, lodabilmente, un percorso attoriale più in linea con la qualità, abbandonando i blockbuster che l’hanno reso celebre e imposto come una stella dallo charme imbattibile, per darsi con grande coraggio e vogliosa intraprendenza a personaggi più marginali in pellicole più di nicchia, insomma, sta rinunciando alla sua immagine di bello impossibile perfino per imbruttirsi e ha abbandonato lo stereotipo del bamboccio irresistibile. Una scelta che pian piano si sta rivelando vincente. Da anni, infatti, Gere si prodiga per i diritti umanitari ed è attivamente coinvolto in imprese benefiche. A questo si aggiungano appunto le sue apparizioni sul grande schermo sempre più centellinate ma distillate con oculatezza e maggiore volontà artistica.
Ecco dunque che in questo film, pacato, silenzioso, dall’andamento quasi soporifero, meticolosamente di una lentezza esasperante, morigerato e plumbeo, Gere interpreta George, un sessantenne alcolizzato e disoccupato, in poche parole un homeless, un barbone.
S’inizia con la comparsata di Steve Buscemi, che volutamente viene inquadrato in volto solo di sfuggita, che fa irruzione in un’abitazione disadorna e fatiscente, e trova il nostro George accasciato in una vasca da bagno. Lo sveglia e lo obbliga presto ad alzarsi, a recuperare i suoi oggetti personali e a sloggiare. Cioè lo sfratta e lo butta in mezzo alla strada. Da qui, il nostro George passerà tutto il film a girovagare senza meta, a peregrinare con lo sguardo perso e addormentato, tra chiese, panchine, dormitori e rifugi. Ed entrerà in contatto con un’umanità invisibile, quella degli oppressi, dei senzatetto, degli emarginati, di coloro che hanno perso tutto e fanno l’elemosina agli angoli di periferia, instaurando una balzana amicizia con un negro mitomane che non smette mai di parlare, in preda ai suoi deliri patetici al contempo autoassolutori e massimalisti. George/Gere è immerso nella scanzonata ipocondria della sua mente collassata, abbarbicato all’unica, flebile speranza di poter riavvicinarsi alla figlia, una barista che da quando aveva dodici anni l’ha ripudiato, dandogli la colpa di non essere stato un buon padre e di essersi disinteressata di lei proprio nel momento più importante e formativo della sua esistenza.
Film sul sogno americano disgregato, sulle dissezioni sociali che la nuova economia capitalista ha mostruosamente creato, sul pullulare di vite inascoltate senza più legami affettivi, e infatti Moverman non poche volte inquadra il nostro tragico “eroe” da lontano, da prospettive sghembe, filtrate dalle vetrine, distaccate, quasi a rispettarne il dolore con delicato pudore e allo stesso tempo compiendo la scelta estetica, e anche “etica”, di “visualizzare” l’indifferenza con cui gente come George viene vista dai “normali”.
Gere s’impegna in sottrazione, con misura stimabile, e si compenetra appassionatamente in George, uomo che sino alla fine non capiamo se è matto, sano o soltanto uno sfortunato, e se il film in qualche modo funziona lo si deve alla sua onestà interpretativa, alla sua irreprensibile immersione appunto nel personaggio. Anche se, ammettiamolo, raramente abbiamo visto un barbone che, nonostante la povertà e il fatto che si lavi poco, rimane così piacente e attraente. Ed è inevitabile che, essendo Gere a interpretarlo, qualche stonatura emerga inevitabilmente e la simbiosi non sempre appaia credibile.
Ma il film probabilmente sbaglia i toni e risulta comunque abbastanza insincero. Perché ci risiamo… Moverman proviene dall’alta borghesia, gli è venuta l’idea di scrivere, oltre che naturalmente dirigere, una storia (assieme a Jeffrey Caine) che potesse emozionare e sensibilizzare le coscienze, ma la sua resta l’ottica di un ricco che quell’esperienze non le ha davvero vissute sulla propria pelle, e il suo sguardo in più punti appare programmaticamente studiato, calcolato, gelidamente anonimo e non veramente sentito. Almeno questa è stata la mia impressione per tutta la lunga visione (il film dura due ore che, data la lentezza, sembrano molte di più). Come ha scritto Goffredo Fofi, Moverman non è Jack London, è un regista che sa navigare nel mondo dei ricchi, come tanti suoi colleghi, parlando dei poveri. Anche nel cinema, oggi più che mai, ci sono ibridazioni necessarie e ce ne sono di fasulle, di modaiole. L’oscillazione di Moverman è di quelle meno sincere, e dunque delle più opportunistiche, delle meno simpatiche. A differenza di Fofi, non sarei così radicale e bisogna ammettere che comunque, nonostante l’operazione sia spesso forzata, alcuni momenti sono toccanti e alcune atmosfere sono congenialmente suggestive e forti.
Ma il film, in buona sostanza, nonostante Gere che non fa Gere, non sortisce l’effetto sperato e anche il tema del difficile rapporto padre-figlia, alla fin fine, rientra tutto sommato nei canoni della tradizione hollywoodiana melodrammatica, artificiosamente sentimentalistica e prevedibile, quasi a confermare ancora una volta che Hollywood proprio non ce la fa a schivare appieno la retorica e casca nei soliti tranelli moralistici anche quando vorrebbe far Cinema riflessivo e impegnato fuori dagli standard.
Va anche detto che però l’argomento homeless è stato sfiorato poche volte dal Cinema a stelle e strisce della grande Mecca. Sono pochi inoltre gli esempi di questo tipo di Cinema “a parte”, o meglio dalla parte degli “scomparsi”, da citare. Penso a Fort Washington – Vita da cani di Tim Hunter con Danny Glover e Matt Dillon o, recentemente, al sottovalutato Being Flynn di Paul Weitz con Robert De Niro e Paul Dano. Ma, certamente, il film migliore sul tema, anche se va detto che non è solo un film sui barboni ma anche sulla pazzia e molto di più, rimane l’indiscusso e stupendo La leggenda del re pescatore.
Nota finale: come molti hanno notato, Gere, a un certo punto del film, dice che, prima di diventare barbone, aveva campato per un po’ facendo l’“ospite gentile” di alcune signore che lo “ospitavano” a casa loro. Che abbia voluto strizzare l’occhio, per curioso parallelismo metacinematografico, al suo indimenticabile Julian Kay di American Gigolò?
Piccola curiosità infine: il direttore della fotografia è Bobby Bukowski, e in effetti questa storia ha molti echi bukowskiani… eh eh. Sia sempre lodato Charles…
E permettetemi anche una nota tragicomica nella sua ironia dissacrante: è un film sul pauperismo, sulla gente i cui equilibri psico-emozionali depauperano…
di Stefano Falotico