Racconti di Cinema – Lincoln Lawyer con Matthew McConaughey
Ebbene, oggi voglio recensire Lincoln Lawyer, seconda opera registica, dopo il pressoché ignoto The Take, datata 2011, e film uscito da noi soltanto in home video, per la 01 Distribution.
Brad Furman… un regista del quale certamente sentiremo parlare quest’autunno poiché proprio in queste ore è stata data la notizia che il suo nuovo film, City of Lies, inizialmente intitolato LAbyrinth (no, non mi sono sbagliato a digitare, LA maiuscolo è l’acronimo, o per meglio dire la sigla, di Los Angeles, e quindi il titolo originario giocava con la parola labirinto della dedalica città degli angeli), con protagonista Johnny Depp, uscirà a Settembre.
Furman, zitto zitto, si fa notare con quest’opera, su sceneggiatura di John Romano, già autore per i fratelli Coen di Prima ti sposo, poi ti rovino, che attinge a piene mani dall’omonimo romanzo del celebrato e vendutissimo Michael Connelly. Romanzo che da noi è stato edito dalla Piemme col titolo Avvocato di difesa.
E dunque estrapoliamo la sinossi ufficiale del libro che ricalca, su per giù, con qualche inevitabile variazione, accorciamenti, aggiunte e mutuazioni, la trama di questo Lincoln Lawyer:
Mickey Haller ha passato tutta la sua vita professionale con il terrore di non riconoscere l’innocenza nel caso se la fosse trovata di fronte. Haller è un avvocato di Los Angeles che prepara i suoi casi dal sedile posteriore di una Lincoln a nolo, mentre si sposta da un tribunale all’altro per difendere piccoli criminali di ogni tipo. Truffatori, spacciatori, magnaccia, prostitute. Un intero repertorio di squattrinati che gli garantiscono solo la sopravvivenza. Quando un playboy di Beverly Hills, accusato di aver aggredito una donna rimorchiata in un bar, lo incarica della sua difesa, Haller ha l’impressione di toccare il cielo con un dito. Finalmente un cliente pieno di soldi, che potrà risolvere la sua situazione finanziaria. E in più l’uomo ha tutta l’aria di non aver commesso il fatto. Ma il giorno in cui Raul Levin, un investigatore privato che lavora a stretto contatto con lui, viene trovato ucciso, Haller scopre che la sua ossessione per l’innocenza l’ha condotto a scontrarsi con un abisso di malvagità. Un gorgo pericoloso, da cui potrà salvarsi soltanto ricorrendo a tutte le sue armi, in una ricerca mozzafiato della verità.
Sì, pressappoco così, con qualche modifica come detto. Mick Haller è un avvocato di successo senza scrupoli morali, arrogante, sarcastico e col sorriso a trentadue denti smaltatissimi di uno smagliante Matthew McConaughey. E la targa della sua Lincoln è altrettanto sarcastica, in linea col suo modus operandi beffeggiatore e canzonatorio, graffiante e velenosamente caustico, NTGUILTY, non colpevole.
Il suo compagno di giochi, l’investigatore privato omosessuale che lo affianca quando urgono, potremmo dire, indagini più approfondite e quando occorre venir a conoscenza d’informazioni segrete, non si chiama Raul Levin, bensì Frank, e ha il volto smunto e caratteristico del sempre ottimo e funzionale William H. Macy, mentre il suo cliente, il perfido doppiogiochista adescatore possiede la perversa faccia d’angelo di Ryan Phillippe. Per il resto il film è piuttosto fedele, seppur riveduto e corretto, rispetto alla novella di Connelly.
Ecco, Haller crederà di trovarsi di fronte al caso più semplice della sua carriera e anche dinanzi a quello per lui più redditizio. Ma sempre più, col passare del tempo e col dipanarsi arzigogolato dell’intreccio, invece prenderà coscienza che il suo cliente non gliel’ha raccontata affatto giusta, tutt’altro. Non solo comprenderà assai presto che è colpevole e marcio fino al midollo dell’aberrante misfatto per cui è imputato, un diabolico depravato viziato da far schifo, ma che è proprio lui il maniaco responsabile di un altro omicidio e stupro per il quale anni prima era stato imprigionato un suo ex assistito (Michael Peña), adesso per l’appunto ingiustamente finito tra le sbarre per colpa della sua superficialità avvocatesca, un povero innocente al quale, sì, permise che non avesse la pena di morte, perché riuscì furbescamente a commutargli la condanna capitale, persuadendolo ad ammettere la sua colpevolezza e costringendolo al patteggiamento, in quindici anni di reclusione, ma che è stato incarcerato dunque senza motivo. E che meriterebbe di essere liberato quanto prima.
Al che, Haller che sino ad allora non aveva mai avuto dubbi sulla sua moralità, anzi, della sua integrità etica se n’era sempre bellamente fottuto e lavato le mani, comincerà a essere pervaso e assalito da conflitti psicologi sempre più torturanti riguardo non solo la discutibile e corrotta, personale probità ma abrasivamente concernenti il valore intrinseco della sua stessa vita privata. Insomma, aveva sempre saputo di essere un figlio di puttana nelle aule di tribunale, un menefreghista bastardo e cinico, ma adesso crederà di essere un impareggiabile stronzo anche nei pochi affetti a lui più cari. E la sua anima scricchiolerà. Un uomo che non saprà più guardarsi allo specchio senza provar ribrezzo. E proprio dallo scaturirsi e propagarsi viscerale di questa sua enorme conflittualità interiore combatterà tenacemente stavolta, in maniera scaltra e silenziosa, per riuscire a incastrare l’imperdonabile farabutto incarnato dal suo glaciale e meschino cliente.
Cliente scomodissimo, che scoprirà essere per di più anche l’assassino del suo collega e amico.
Il tempo stringe, assolutamente lo difenderà costi quel che costi perché non può rinnegare l’etica sua professionale e processuale, altrimenti verrebbe espulso dall’albo, ma dovrà strategicamente agire di astuzia per trovare al contempo un escamotage che lo possa inchiodare, riuscendo ad assolverlo da un lato, accusandolo d’altro canto però per omicidio.
In mezzo a questa fitta trama d’imbrogli e sotterfugi, ci saranno anche gli alterchi e le scaramucce con l’ex moglie (Marisa Tomei) e una gang di motociclisti che deve tenersi buoni.
Insomma, sostanzialmente Mick Haller chi è? Un avvocato dissoluto oppure integerrimo, un vero difensore della giustizia, un padre e marito disonesto o misericordioso, un eroe della strada o un mezzo gangster che, dietro la patente della legalità e dell’impeccabile eleganza nel vestire, è sporco come e quanto la feccia che popola le prigioni statunitensi?
Su questa sua fascinosa, amorale ambiguità, su questa sfacciata doppia personalità, Furman costruisce questo suo film dalle cadenze thrilling, mantenendo soddisfacente la tensione per le circa dure ore di durata e infondendo discreto ritmo alla vicenda un po’ contorta, e in molti vi hanno visto delle speculari analogie con Doppio taglio (la pellicola di successo del 1985, apripista per questo genere di film procedural, con Glenn Glose e Jeff Bridges) e, come nel caso del forse sopravvalutato film di Richard Marquand, i colpi di scena, soprattutto nell’ultima mezz’ora sono troppi, eccessivi, telefonati, ripetuti uno dopo l’altro in una scansione diegetica affrettata e irrisolta, perfino banale. E forse lo stile di Furman in molte sequenze è decisamente convenzionale ed esteticamente ruffiano.
Ciò non toglie che il film si segua volentieri, anche se sappiamo già prevedibilmente come andrà a finire.
Mi chiedo però se da un materiale così vasto non si poteva sviluppare meglio l’ingarbugliata trama, che ne so, probabilmente anziché farci un film creare una serie televisiva sulla scia del magnifico The Night Of. L’intera storia non sarebbe stata compressa e condensata troppo ordinariamente a differenza di quel che qui avviene, e gli snodi narrativi sarebbero stati meglio espansi e approfonditi.
Peraltro, a tal proposito, mi riaggancio a una vecchia notizia secondo cui proprio Furman, tanto per chiarire che le sue registiche e stilistiche qualità per un prodotto di questo tipo erano già state adocchiate, doveva dirigere Private, per la Tribeca di De Niro, potenziale serie tratta da un altro lodato specialista dei legal thriller, James Patterson, ma di questo progetto non si è saputo più nulla.
Ritornando a Lincoln Lawyer, nel cast sono certamente da menzionare anche le facce di pietra di Frances Fisher e di Bob Gunton.
In fin dei conti, un film godibile, ma tutto già visto e tutto molto scontato.
di Stefano Falotico