Racconti di Cinema – The Hateful Eight, capolavoro o boiata deplorevole?
Ebbene, a distanza di due anni e mezzo dalla sua uscita nei cinema, voglio ritornare su questo film iper-discusso e decisamente controverso di Quentin Tarantino, opus n. 8 del nostro bad boy. E infatti il nostro orgoglioso Quentin ci tiene a ribadirlo nei titoli di testa… the 8th film by…
E ne voglio parlare perché, come saprete, stanno iniziando le riprese dell’attesissimo Once Upon a Time in Hollywood, nona sua opera con Leonardo DiCaprio e Brad Pitt. Anzi, secondo IMDb i primi ciak sono già stati scattati. E dunque facciamo promemoria e un salto a ritroso.
Un tempo si usava l’espressione grand–guignol. Espressione adesso desueta e pressoché scomparsa. Invece è assolutamente pertinente per inquadrare, appunto, la natura grandguinolesca di quest’opera.
Non voglio spiegarvi l’etimologia di questo termine? Invece, lo farò, Il nome deriva da un burattino parigino, di Montmartre, e poi questa definizione è stata espansa per definire il Teatro della capitale francese in cui si offrivano rappresentazioni che mettevano in scena orrori e truculenze con schietto, abrasivo realismo per esasperare la tragicità della vicenda e mescolarla al grottesco, all’assurdo, perfino al comico.
Quindi, tal definizione quanto mai è concernente lo spirito che pervade questo film di Tarantino. Non è pedanteria la mia, né vezzo e neanche pignoleria sofistica. È mettere i puntini sulle i in stile Samuel L. Jackson, appunto, dei film di Tarantino.
Subito dopo la fine della Guerra di Successione, in un Wyoming nivale, aperto da una lunga carrellata zoomante su un crocefisso innevato e inquietante, Morricone scandisce sin dapprincipio la sua leggenda leoniana, nel rimembrarci l’epica del western, della spazio-temporalità mitica e persino mistica di un Cinema collocato in una realtà vintage, demodé ma eternamente fascinosa. Cristallizzata, come ghiaccio rovente, nella sperduta nostra memoria sognante, immortalata negli anfratti dei nostri cuori e panoramicamente volteggiante su questi suggestivi, pittoreschi paesaggi animati da personaggi solitari, brutti e sporchi, sudici nelle lor anime già corrose, avvelenate e inique.
Una carovana si sta dirigendo verso Red Rock. E nella carrozza c’è un boia che deve consegnare all’impiccagione una donna omicida, abbruttita e deturpata in viso dalle botte ricevute. Al che, come su un palcoscenico atipico, come Teatro filmato, entrano in scena i successivi personaggi. Prima un altro cacciatore di teste che sostiene di essere amico di pennino, di lettera di Abramo Lincoln, quindi un sedicente sceriffo.
Una forte tormenta incombe e allora la diligenza è costretta a fermarsi. E i quattro si fermano a un emporio. Ove già stazionano altri loschi figuri, seduti attorno al focolare del vasto locale, tutti lì ad aspettare che la tempesta si plachi. E, nel gelo polare dei loro segreti inconfessabili ma poi furiosamente, lentissimamente svelati, pian piano confidati, deflagrano morbosi e infidi i conflitti e inizia un gioco al massacro di rivalità, scaramucce, provocazioni e virili complicità bastarde.
Sino all’esplosione tonante della tragedia finale. Distillata col contagocce ed ettolitri di sangue a fiumi.
È inutile che vi stia a elencare pedissequamente, per filo e per segno, i nomi dei vari characters e che, con puntiglio, vi dica chi rispettivamente li interpreta. Gli attori del cast li conoscete benissimo e, probabilmente, se avete visto il film, e desumo facilmente che, se siete cinefili, l’avrete perfino rivisto più e più volte, saprete esattamente che Samuel L. Jackson è il Maggiore Marquis Warren, Kurt Russell è John Ruth, Jennifer Jason Leigh è Daisy Domergue, Walton Goggins è lo sceriffo (?) Chris Mannix, Demián Bichir è Bob, Tim Roth è Oswaldo Mobray, Michael Madsen è Joe Gage, e Bruce Dern è il Generale Sandy Smithers.
Sì, alla fine li ho elencati tutti. E, maniacalmente, come la sceneggiatura di questo film, ho sancito, potrei dire, parimenti al modus operandi di Tarantino e del suo ingarbugliato, iterativo intreccio, la necessità di ripetere interminabilmente ciò che si sa ma potrebbe esserci sfuggito, rimarcando di analessi mnemonica ciò che innanzitutto va tenuto ben presente. Perché potremmo scordarci qualche passaggio e peccare di superficialità. E non possiamo dimenticarci dei loro nomi se vogliamo vederci chiaro…
Ribadito l’ovvio, devo ammettere con enorme dispiacere che questo suo film non mi è affatto piaciuto o perlomeno mi ha deluso. Perché sì, alla faccia dei tarantiniani e tarantinati che lo elevano sempre in gloria, questo non è uno dei suoi migliori. Anzi, con tutta probabilità è il peggiore. Eh sì, è afflitto, mi duole non sapete quanto dirlo, da una “scontatezza” e da un’insipidità da lasciarmi basito e addolorato.
E dunque mi accodo a quelli che non l’hanno sopportato.
Sì, Tarantino è sempre stato questo, verboso e logorroico ma, se nei suoi precedenti film, anche nei più citazionistici, nei guilty pleasure come A prova di morte, la verbosità aveva un preciso senso, oserei dire, morale e funzionale alla sua poetica, qui diventa un catalogo fastidiosissimo di autocompiaciuto e ossessivo cercar di compensare l’anemia emozionale e drammaturgica della sua opera, costruendo impalcature diegetiche che non reggono attraverso sterminati dialoghi in fin dei conti vuoti e superbamente insignificanti, che nemmeno l’ineccepibile sua bravura tecnica, la certosina cura dei dettagli e l’al solito magistrale fotografia di Robert Richardson, celebre sin dai tempi di Oliver Stone e dello Scorsese di Casinò e Al di là della vita per saturare ogni sfumatura con le sue luci soffuse e “riverberanti”, son riusciti a farmelo amare.
Lo ammetto, con onestà. Certo, Tarantino è sicuramente un regista geniale, così tanto da mangiar sé stesso e perdersi, come accade qui, in un narcisistico tanto sbellicarsi e auto-adorarsi da diventare il cannibale della sua stessa autoriale unicità. I suoi pregi di scrittura diventano in questo caso difetti evidenti del suo ingigantirsi, imbrodarsi, un intollerabile e referenziale celebrarsi vanitoso e vano.
Dialogicamente è superlativo, le scene sono indiscutibilmente girate da Dio, gli attori sono bravissimi e carismatici, soprattutto Tim Roth, a metà strada fra Christoph Waltz (e infatti la parte era stata scritta per lui) e la classe monologante di Al Pacino, e il sempre impeccabile, da Oscar, debordante Samuel L. Jackson, ma a livello contenutistico è un giallo risaputo, prolisso, lunghissimo e, diciamo la verità, in molte parti sinceramente noioso da morire.
Se poi siete fra quelli che adorano un film anche solo per speculare sulla complicatezza snervante delle singole scene, per minuziosamente sondare ciò che sta dietro di esse e v’incantate a osservare ogni rifinita minuzia della messa in scena, non posso dirvi niente. Santificatelo e continuate a riguardarlo.
A ognuno la sua visione del Cinema.
Quindi, The Hateful Eight è paradossalmente il film più tarantiniano di tutti, se vogliamo concederci questi estremismi, ed è per questo che i suoi fan incalliti lo difendono a spada tratta. È lo zenit esponenziale del Suo Cinema, la summa compressa e sproporzionata, oserei dire, di ogni suo film precedente. Vi è il jeu de massacre come ne Le iene (e mi stupisco, vista la presenza di Tim Roth e Michael Madsen, che Tarantino non abbia richiamato Harvey Keitel, ma fra i due pare non scorrere più buon sangue) e, come in Reservoir Dogs, uno dei protagonisti è una talpa, uno che si nasconde dietro una doppia identità, o forse a mentire sono tutti o la maggioranza di essi, c’è la stessa verbosità, qui però ingigantita e dilatata a iosa, di Pulp Fiction e Jackie Brown, di Grindhouse e Bastardi senza gloria, ma in questi film la trama presentava degli snodi e dei geniali deragliamenti, mentre qui il film, lento come una melassa, è di una piattezza sconfortante e poco emozionante.
Ora, questo però è indubbiamente un western, sui generis certo, e Tarantino ha sempre dichiarato il suo viscerale amore, anche esplicitato, dunque sviscerato in alcune delle succitate pellicole, per Sergio Leone e per Carpenter. Sì, Carpenter è stato un regista di grandi western, metropolitani e distopici, infatti Distretto 13, 1997: Fuga da New York, Vampires e Fantasmi da Marte, secondo voi, cosa sono se non western mascherati da altro?
E allora chiama a raccolta il suo idolo Ennio Morricone, che a sua volta ricicla pezzi sonori da La cosa.
Però, questo film è quanto di più lontano da Leone e Carpenter ci possa essere. Carpenter ha sempre amato le pause, le ambientazioni claustrofobiche, ma le sue compressioni e le sue digressioni servivano per sviluppare e far detonare l’azione virulenta, erano il basamento su cui lasciar che scoppiasse la miccia propulsiva degli eventi. Qui Tarantino non crea suspense, ci gioca intorno, e poi delude ogni nostra aspettativa. Ammorbandoci nella contemplazione fine a sé stessa. Sì, negli ultimi quaranta minuti ne accadono di code e di crude, come si suol dire, e lo splatter la fa da padrona. Ma il suo non è un bel tocco…
E di Leone neanche a parlarne. Leone amava appiccicarsi al viso degli attori, ai loro baffi, per cogliere ogni minima gradazione emotiva dei corpus attoriali incarnati in quelle straordinarie facce. Per farci sentire e respirare la paura, le titubanze, le lor anime incrinate e mordaci, agghiacciate, per farci respirare il sangue e il ribollio carnale dei suoi personaggi.
Tarantino invece si fissa sui dettagli dei suoi attori per adorarli e basta. E dirò una cosa che hanno detto in molti ma che va ancora una volta sottolineata. Il formato Panavision 70mm è magnifico nelle scene iniziali all’aperto perché, essendo Panavision, amplifica ogni singolo fotogramma per donare maggiore ampiezza possibile all’inquadratura. Ma il film si svolge pressoché unicamente in uno spazio chiuso e angusto, l’emporio, e dunque perché usare questa tecnica? L’unica ragione attendibile, oltre al fatto che volesse omaggiare i grandi classici del passato e ammantare già di aura leggendaria il suo film, potrebbe esser stata la decisione di voler inquadrare tutti i personaggi in scena anche quando sono dislocati a debita distanza l’uno dall’altro, come in un enorme teatro di posa nel quale dobbiamo stare attenti a tenere d’occhio chiunque, a ravvisarne ogni impercettibile spostamento, a mo’ pedine del gioco di scacchi fra Oswaldo e il Generale Smithers, le cui più impercettibili mosse possono rivelarsi letali e fatali. Ma, Quentin, non mi hai convinto.
E nemmeno il tuo film. Mi spiace.
di Stefano Falotico