Racconti di Cinema – Essi vivono di John Carpenter
Ebbene, oggi voglio parlarvi di Essi vivono (They Live), al solito del Maestro per antonomasia, il re dei brividi e il profeta del nostro mondo, sospeso com’è nella perentoria immanenza di un presente inevitabilmente ancorato al passato, ma in perenne, continuo, inarrestabile, putrefacente divenire. Un mondo già squagliato, eroso, malato e infetto, che imperterrito però prosegue nel suo aderire adorante a un processo irreversibile forse di autodistruzione, soccombente a una crisi incombente, ma invisibile ai più, scongiurata dalla retorica insistita e invadente dei mass media che, con le loro fake news, influenzano il nostro stile di vita, sgualcendolo nella sua incontaminata, libera, democratica bellezza.
Film uscito in patria, cioè negli Stati Uniti, il 4 Novembre del 1988 e arrivato da noi, come sovente tutt’ora accade con molte pellicole contemporanee, in leggero ritardo, ovvero il 16 Aprile del 1989. Film della durata secca e oserei dire nerboruta di un’ora e trentaquattro minuti. Sì, perché Carpenter non ha mai amato girare lungometraggi troppo lunghi ed è sempre stato puntualmente contenuto nel minutaggio, rimanendo sotto le due ore. Anzi, filmografia alla mano, posso altresì confermare che solo Christine e Starman si avvicinano a 120 min. ma neppure ci arrivano, gli altri stanno invece tutti molto sotto. Insomma, Carpenter ha rispettato inderogabilmente questo permanente parametro, e non credo sia un caso, ma una scelta, quasi un suo stilema e marchio inconfondibile di fabbrica. Questa è un’altra delle sue caratteristiche, la stringatezza sintetica delle sue opere non inficia l’effettiva, radente potenza incisiva del suo Cinema.
Anzi, nella lapidaria sinteticità delle sue opere consiste e rifulge vigorosa la loro concisa efficacia inattaccabile e poderosa.
Essi vivono è un altro dei suoi indubbi capolavori. Sì, lo è. Con buona pace dei suoi infimi detrattori che si ostinano a relegare questo film semplicemente fra le interessanti pellicole d’intrattenimento. E sostengono che sia sopravvalutato.
Dicevo della durata. Sì, su per giù è quanto quella di una puntata un po’ più espansa di Black Mirror. E non a caso cito la serie Netflix che da qualche anno a questa parte spopola tra milioni di fan. Io non ne sono affatto un cultore e più di tanto, nonostante ne riconosca i pregi e nudamente ammetta che il suo fervido creatore Charlie Brooker abbia compiuto davvero dei prodigi immaginifici, non mi son lasciato incatenare e influenzare dall’orda di sfegatati ammiratori che l’elevano superbamente in auge. E sapete perché? Perché molti dei suoi temi trattati, come l’influsso subliminale delle tecnologie, l’alienazione dell’alterata società contemporanea, ideologicamente lobotomizzata dalla meccanizzazione delle coscienze, eran già stati ampiamente evidenziati in questo film seminale di Carpenter. Sì, perché uno degli enormi pregi di Carpenter è sempre stato quello di aver inventato idee a profusione, di aver vivificato la fantasia più creativa e aver anticipato il Cinema e la televisione a venire. Quasi tutte le sue opere sono infatti modelli granitici, eterni, progenitori e ispiratori di ciò che è venuto dopo e di quel che inesorabilmente gli è stato anche, volente o nolente, inconsapevolmente debitore.
Detto questo, Carpenter firma qui, oltre alle musiche, anche la sceneggiatura, attingendo a un racconto del 1963 di Ray Nelson, Alle otto del mattino, e celandosi dietro lo pseudonimo di Frank Armitage, che è peraltro il nome di uno dei co-protagonisti del film.
Ecco qua la storia… un vagabondo senza meta, John Nada (interpretato dal compianto ex wrestler canadese Roddy Piper, morto a soli 61 anni per un arresto cardiaco nel 2015), arriva a Los Angeles in cerca di lavoro. Grazie all’aiuto di un uomo di colore, Frank Armitage appunto (Keith David), viene assunto come operaio in un cantiere e alloggia assieme a lui in una baraccopoli ai piedi di una periferia fatiscente che affaccia sugli svettanti grattacieli di cristallo della metropoli. E già sarebbe da lodare Carpenter per quest’uso suggestivo delle location, il covo dei diseredati in contrasto col panorama e lo sfondo sfavillante delle luci roboanti della città. Contrasto che acquisisce toni seducentemente ipnotici agli occhi di noi spettatori nelle prime cupe, irreali e perfino fiabescamente macabre scene notturne, quasi nebbiose e traslucide.
Nada però si accorge subito che qualcosa non va… e bizzarri accadimenti gli gravitano intorno. Un invasato predicatore cieco, in pieno delirio da apparente sobillatore, sprona la gente del luogo a vedere il mondo nella sua trasparenza, mentre un altro uomo invia indecifrabili, criptici messaggi attraverso delle interferenze televisive, affinché la gente possa ridestarsi dal torpore e dal buio delle loro anime addormentate.
Inoltre, nella strada antistante, c’è una chiesa. Nada vi entra di nascosto e se n’incunea, e scopre ben presto che lì la gente non si riunisce per pregare o assistere alle funzioni religiose, bensì si sta organizzando per cospirare contro lo Stato dittatoriale.
La sera stessa le forze dell’ordine violentemente fanno irruzione nel campo “nomade”, lo sventrano e lo sgomberano, facendo piazza pulita. Il mattino dopo, Nada ritorna nella chiesa e rinviene in una scatola un paio di occhiali da sole. Li indossa e cammina per le strade. E la realtà gli si svela paurosamente per quella che è. Molti degli abitanti gli appaiono ora come degli alieni-zombi, scarnificati e scheletrici, Nada comprende spaventevolmente che la città è sotto assedio e legge scritte come “Stay Asleep”, “No Imagination”, “Submit to Authority”, mascherate dietro la pubblicità e i cartelloni promozionali.
Insomma, il mondo è tenuto in scacco da una fazione di governanti totalitaristici che sta imprigionando a livello subconscio le persone, desensibilizzando le coscienze di massa con messaggi e simboli occultamente persuasivi per invogliarli al consumismo e per bloccare e inibire i loro liberi arbitri.
Inutile che vada avanti nel raccontarvi per filo e per segno la trama. Guardate o riguardate il film o consultate enciclopedie online come Wikipedia per far promemoria di quel che verrà dopo.
Come andrà a finire? Lo scoprirete solo amandolo…
Carpenter, pur con scarsità di mezzi (solo quattro milioni di dollari di budget), dà fondo a tutta la sua vulcanica inventiva, profetizzando perfino i droni odierni, e il suo film è un chiaro attacco alla società capitalistica. Se negli anni cinquanta i nemici erano i comunisti, a fine anni ottanta sono i rampanti e edonisti yuppies.
Sì, la pellicola ha anche vistosi difetti e, al di là del finale con qualche opportuno effetto speciale, è puro artigianato girato con quattro soldi. E Piper, che attore professionista non era, è visibilmente in imbarazzo e impacciato soprattutto nelle scene iniziali, e pare spesso che, col suo sguardo indeciso e goffo, si rivolga a Carpenter per capire meglio come deve girare le scene. Ah, quelle mani in tasca… Incertezza recitativa che neanche il montaggio conclusivo è riuscito a cancellare, ma forse proprio nell’imbranataggine simpatica e nella modesta naturalezza espressiva di Piper, scelto probabilmente apposta per il suo corpaccione da worker, da proletario rozzo, risiede il fascino del film. Nella sua rude schiettezza.
E se trascuriamo qualche palese didascalismo forzato, il messaggio inviatoci da Carpenter trent’anni fa era quanto mai attuale e divinatorio: il male c’è, dietro il falso benessere vi è celato l’orrore, ma siamo stati resi ciechi da anni di condizionamenti televisivi e massmediatici per accorgercene. Forza, gente, they live, we sleep, è tempo di riaprire gli occhi una volta per tutte. E ribellarci.
Masterpiece! Non si discute!
di Stefano Falotico