Racconti di Cinema: Kill Bill – Volume 1 di Quentin Tarantino
Ecco, Quentin Tarantino alla prova del nove. Di solito, la prova del nove avviene dopo un esordio entusiasmante, per attestare se la grandezza della prima opera di un autore sia addebitabile alla cosiddetta fortuna del principiante, dovuta a circostanze favorevoli, a istanze ben miscelate e perfettamente funzionali o addirittura rivoluzionarie per il tempo fatale e magico in cui son state, diciamo, orchestrate, nel quale si son miracolosamente scaturite per concomitanza di fortuiti fattori alchimici, o invece, e in questo caso parlo di un regista spuntato dal nulla, il talento ce l’ha davvero, semmai smisurato, incontestabile, oramai unanimemente acclarato, assodato e nella sua seconda opera ribadito maestosamente. Tarantino la prova del nove l’aveva superata alla grandissima, dopo Le iene, proprio con l’epocale Pulp Fiction. Creando un film manifesto per un’intera generazione cresciuta a Corn Flakes, fumetti da leggere sulla tazza del cesso, tv spazzatura sparata nelle vene neuronali delle più lerce pubescenze di ragazzotti tirati su nel “patchwork” di una cultura pop sincreticamente eterogenea, un film in cui erano confluiti il trash, la destrutturazione temporale da Rapina a mano armata, l’inventiva di dialoghi caustici e irriverenti, guasconi e buffoneschi, personaggi clowneschi nati dalla celluloide e dalle cellule impazzite del mito americano della celebrità e del divismo, ove anche un gangster appesantito può conoscere a menadito la sottile differenza che intercorre fra Marilyn Monroe e Mamie Van Doren e non potrebbe mai confonderle con Jayne Mansfield. Un cocktail micidiale modellato su una sceneggiatura radente come un rasoio, dall’incessante, propulsivo ritmo “orecchiabile” come una colonna sonora trascinante, leggerissima ma potente, violenta ma romanticissima.
E poi aveva diretto Jackie Brown. Noir tratto da Elmore Leonard, o chiamatelo hard–boiled se preferite.
Blaxploitation sui generis, anacronistica, compassata, lentissima con schizzi poi velocissimi del solito imbrattamento di sangue, qui però più contenuto e spesso fuori scena, sangue languido ed estasiante soprattutto incastonato, effuso caldamente alla nostra anima invigorita da tanta malinconica bellezza ruggente.
Ma Tarantino è un fenomeno, e come tutti i fenomeni ha detrattori in ogni dove, e uno di questi acerrimi suoi detrattori sarà perfino nascosto in una ciotola di riso pronto a sparargli nel culo. Sono pronto a scommettermi le palle che i suoi detrattori crescano, di ora in ora, come inestirpabili funghi.
Dunque, ogni film di Tarantino aderisce a questa innegabile regola primaria e imprescindibile, anche ora che, trascurando l’episodio di Four Rooms, e considerando appunto questo Kill Bill come opus e unicum indivisibile ripartito in due parti solo per meri fini lucrativi, il nostro Quentin sta girando il suo nono lungometraggio, Once Upon a Time in Hollywood. Tarantino è uno di quei registi che, visto il suo essere inclassificabile e mutevole, contaminatore spericolato e sempre all’arrembaggio in qualsiasi genere, non potendo essere ascritto a nessuna categoria precisa, dovrà patire sino alla morte l’irrimediabile pregiudizio ostinato di molti critici e di quegli spettatori che lo detestano e aspettano fervidamente un suo clamoroso passo falso per scavargli la tomba e poter baldanzosamente sciocchi decretargli di essere stato sempre un bluff. Tarantino ha già dimostrato di essere un grande, bisogna vedere se lo sarà nell’avvenire.
Queste invidie sono figlie della pusillanimità e dell’ingratitudine di coloro che, mal tollerando il suo successo e la sua indubbia personalità debordante, non vedono l’ora, come avvoltoi, di potergli rodere il fegato, perché a ogni sua nuova opera acclamata si sentono rosicchiare sin alle viscere più putride ed esplodono acrimoniosi di bilioso odio imbattibile. Pregando in silenzio affinché miseramente fallisca. Per appioppargli, come malevoli si augurano, l’etichetta di ciarlatano.
Detto questo e sottolineato quindi che ogni nuova opera futura di Tarantino sarà sempre per lui una prova del nove, questa richiesta di “test attitudinale” da parte della moltitudine di eterni prevenuti nei riguardi del suo Cinema, ossessionati come San Tommaso a controllare se davvero possedeva e possieda mirabili qualità innovative, è calzata a pennello quando è uscito Kill Bill.
Perché molti si sono chiesti: ebbene, dopo queste sue incursioni, certo originali e straordinarie, ma nere e cruenti, splatter e sanguinolente, saprà autenticamente dimostrare di saperci fare anche con una semplice storia di vendetta echeggiante C’era una volta il West?
La riposta qual è stata?
Personalmente, ricordo che andai a vedere Kill Bill Vol. 1 in una fresca serata invernale, nel tepore dei miei umori ballerini, e a dire il vero, a parte un certo pathos in crescendo da me emozionalmente introiettato e sinceramente vissuto per il cliffhanger dei 5 min finali, con la lapidaria frase di Michael Madsen… quella donna merita la sua vendetta, e noi meritiamo di morire, non uscii dalla sala incantato dalla sua visione, anzi, una netta delusione ingravidò il mio animo incontentabile e giudicai questo film infantilmente anemico e velleitario.
L’altra sera, a fine Maggio 2018, l’ho rivisto integralmente. Ma qui mi limito per ora a sacramentare su tal primo volume.
Nato da una squinternata idea generata da discussioni fra Tarantino e Uma Thurman, ecco che dopo mille revisioni e uno script ideato e poi infinitamente, innumerevoli volte rieditato, Kill Bill Vol. 1 inizia proprio sulle note melodiose di Nancy Sinatra e della sua Bang Bang (My Baby Shot Me Down).
Tanto per farci capire subito che Uma Thurman/La Sposa/Black Mamba altri non è che un prosieguo ideale e meta-cinematografico di Mia Wallace…
Sì, chi è effettivamente La Sposa, The Bride? Una donna samurai che, nel suo più bel giorno della sua vita, quello delle nozze, viene barbaramente pestata da un “covo di vipere”, è il caso di dirlo, la sadica Deadly Viper Assassination Squad. Che fa capo al terribile, mefistofelico, disumano monstre, qui ancora senza volto, di Bill/David Carradine, un carnefice edonista marcio.
Che, dopo che quelli della sua squadra l’avevano massacrata di calci e pugne, di sua mano le spara in testa.
La Sposa è morta. No, La Sposa non è morta. È entrata in coma ma la figlia che portava in grembo, nata dall’unione carnale amorosa col suo protettore Bill, uomo che lei venerava, sì, da lui avuta, è crepata (o almeno questo pensa lei).
La Sposa resta in coma per quattro anni, poi si risveglia e risorge. Resurrezione atroce! Prende immediatamente coscienza di quel che abominevolmente le è accaduto, e allora ha una sola testardissima ossessione bastarda, vendicarsi di tutti i colpevoli e ammazzare Bill in maniera ferina, con imperdonabilità furiosa egualmente proporzionale all’aberrante sua efferatezza perpetratele.
Il film allora diventa tutto e niente, wuxiapian, avventura, demenziale, fumetto, anima giapponese, yakuza movie, iperrealista western metropolitano, perfino un gioco à la Mortal Kombat stilizzato in piani-sequenza come Brian De Palma tritato in salsa tarantiniana. Tarantino gira da Dio, alcune sequenze sono magnetiche ma qui è forse solo un abile giocoliere, un mirabolante giostraio di frame che, presi singolarmente, sarebbero da incorniciare, vuoi anche la levigatezza formale del direttore della fotografia Robert Richardson, ma nel loro insieme appaiono come un innocuo collage anti-emotivo, privo di ogni sanguigna visceralità davvero poetica.
La Thurman è adesso grintosa e macha, poi dolce e tenerissima, fragile e durissima, perfetto corpo androgino da combattimento e poi inadeguata, senza physique du rôle, scialba e, oserei dire, anche sgraziata.
Le coreografie degli stessi combattimenti e di quello dei quaranta minuti finale sono magistrali, ma mancano di ogni epica e diventano soltanto esercizio di stile meraviglioso a vedersi ma emozionalmente, ripeto, vacuo e inane.
Allora questo Kill Bill Vol. 1 assomiglia tanto alla puntata di un serial televisivo che ci ha visivamente stordito, rimbambito e che si è interrotta sul più bello, tenendoci incollati davanti allo schermo per circa due ore grazie, a mio avviso, solo alla splendida, variopinta e poi leoniana colonna sonora.
Sì, dunque a distanza di anni, rimango del giudizio che Kill Bill Vol. 1 sia stata una prova del nove non superata.
Non vogliatemi male.
di Stefano Falotico