Paterno, recensione
Il 7 Aprile di quest’anno debuttò sul network HBO il tv movie Paterno di Barry Levinson con Al Pacino, da noi passato in prima televisiva ieri sera, Giovedì 31 Maggio, su Sky Cinema Uno alle 21 e 15. Ed è la prima volta che un film HBO arriva così presto anche qui da noi, perfettamente doppiato e con al solito la voce poderosa del magnifico Giancarlo Giannini che finalmente si riappropria del “suo” attore preferito, Pacino.
Film della durata di 1h e 45 min, che anni fa doveva realizzare Brian De Palma, e inizialmente si sarebbe dovuto intitolare Happy Valley, ma per scontri con la produzione il progetto finì nel limbo sino a quando non fu Levinson a riappropriarsene nell’estate scorsa, periodo nel quale si son tenute in poco più di un mese le riprese. Levinson è oramai uno specialista di ritratti biografici o, per meglio dirlo all’americana, di biopic su personaggi assai controversi che hanno scosso l’opinione pubblica. Di soltanto un anno fa il suo Wizard of Lies con Robert De Niro e Michelle Pfeiffer, sullo scandalo finanziario che travolse Bernie Madoff, e suo anche You Don’t Know Jack – Il dottor morte, così come fu produttore del bellissimo Phil Spector, scritto però e diretto da David Mamet. Pellicole che comunque furono interpretate sempre egregiamente da Al Pacino.
Film-“inchiesta” quelli del Levinson recente, e un Pacino che ancora una volta si riscatta da prove scialbe e opache di film abbastanza inguardabili come Conspiracy e Hangman. Sì, perché a ben vedere Al Pacino il meglio di sé negli ultimi tempi l’ha dato proprio per la televisione, considerando anche il suo forte ruolo in Angels in America di Mike Nichols.
Lui e Levinson sono grandi amici da una vita. Di Levinson fu la sceneggiatura di …e giustizia per tutti, e proprio Levinson diresse Al Pacino in The Humbling, film passato decorosamente Fuori Concorso al Festival di Venezia.
Qui i due si son coalizzati per dar vita agli ultimi mesi di vita di Joe Paterno, il coach con più vittorie all’attivo nella storia del college Football, che fu licenziato senza mezzi termini in seguito allo scandalo sessuale di abuso sui minori che riguardò il suo assistente Gerald Arthur Sandusky, detto Jerry (lim Johnson).
Che violentò un sacco di ragazzi dell’università e usò come stratagemma, per celare per molto tempo le sue ignobili malefatte, il furbo paravento di un’associazione benefica da lui fondata, che si proponeva di aiutare i bambini poveri e indigenti, abbandonati spesso a sé stessi.
I misfatti emersero grazie a un coraggiosissimo reportage della scaltra e ambiziosa, giovanissima giornalista Sara Ganim (la lanciatissima Riley Keough), che fu insignita del premio Pulitzer.
Lo scandalo scoppiò a cavallo di quando Joe Paterno vinse da allenatore la sua 409° partita. E il film si concentra sulla settimana che ne seguì, in cui Paterno si trovò in una situazione scomodissima, proprio lui, allenatore leggendario, integerrimo e beniamino di tanti gagliardi boys che grazie alla sua fiducia e ai suoi insegnamenti arrivarono a primeggiare e a ottenere la laurea. Insomma, un idolo per la comunità, che gli aveva dedicato perfino una statua in suo onore.
Levinson allora osserva Pacino con profonda umanità, lo spia da vicino, con primissimi piani che si attaccano a ogni ruga ed espressione del suoi viso, per meglio cogliere i dubbi che lo assalirono, i sensi di colpa attanaglianti che lo distrussero per aver forse taciuto o aspettato troppo a dire la verità al fine di preservare la purezza di quell’ambiente invece così macchiato sin alle fondamenta dal marcio più lercio.
Come avvenuto per Il dottor morte e col suo Jack Kevorkian, e col Madoff di Wizard of Lies, Levinson si limita a osservare Paterno e prova a indagare nel suo animo divelto e combattuto, non lo giudica e non
ci fornisce spiegazioni. Lascia al nostro buon senso, anzi al senso della nostra morale, ogni possibile giudizio.
Il film si segue volentieri, Pacino è molto invecchiato davvero, e non solo per il vistoso trucco che lo rende impressionantemente simile al vero Joe Paterno, ma rimane sempre bravissimo e puntuale, e la sua stavolta è una recitazione molto trattenuta, lontana dai suoi consueti istrionismi teatrali.
Però, sinceramente, avevo preferito molto di più, appunto, Il dottor morte e Wizard of Lies, perché qui la sceneggiatura di Debora Cahn e John C. Richards è altamente professionale ma pare un compitino poco convincente e troppo schematico.
Comunque, da vedere.
di Stefano Falotico