Racconti di Cinema – Al di là della vita di Martin Scorsese con Nicolas Cage

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Ebbene, in questi giorni Martin Scorsese è a Bologna e, a fine anno, come tutti sappiamo, è atteso col suo già epocale The Irishman con Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci, anche se, essendo una produzione Netflix, non sappiamo se il film, com’è molto probabile ma non certo, verrà presentato in sala o uscirà direttamente sulla piattaforma di streaming più famosa al mondo. Quel che è quasi assicurato è che questo mastodontico kolossal, per poter gareggiare agli Oscar, verrà mostrato in anteprima prima della fine del 2018. E ci auguriamo davvero che ciò possa accadere, che la post-produzione non si attardi troppo per via dei notevoli, massicci effetti speciali che necessitano di mesi e mesi di affinamento, sebbene noi spettatori non lo potremo vedere prima dell’anno a venire. Detto questo, quale migliore occasione per rispolverare una perla magnifica di Scorsese, Al di là della vita (Bringing Out the Dead), una di quelle pellicole forse talmente belle, nitidamente angoscianti, cristologica, paurosamente dostoevskijana, soffusamente maledetta che nessuno prende mai in considerazione e, quando si parla di Scorsese, in pochissimi citano? Wikipedia perfino si è scordata di essa e le dedica solo un trafiletto banale che la liquida in poche epigrafiche righe.

Perché trattano in questo modo quello che invece, stupendamente, è l’ultimo grande capolavoro di Scorsese? Sì, avete letto bene. Permettetemi di obiettare contro chi sostiene che i film con DiCaprio siano grandiosi, personalmente, è paradossale lo so, Gangs of New YorkThe AviatorThe Departed (seppure oscarizzato), Shutter Island e l’insopportabile, sopravvalutato e indigesto The Wolf of Wall Street, non me ne voglia il comunque superlativo DiCaprio, sono proprio i suoi film peggiori. Non ho detto brutti ma peggiori perché sono un avido compromesso con le case di produzione che hanno rattrappito e strozzato il virulento, sanguigno, passionale Scorsese nel mainstream delle logiche commerciali. Film elegantemente magistrali ma privi di quel suo tocco viscerale, poeticamente straziante, funambolico e furioso delle sue massime opere. E, tralasciando DiCaprio, Hugo Cabret e Silence sono, sì, vette altissime, ma scevre della potenza cinematografica più puramente scorsesiana. Laddove, di contraltare, invece i suoi capidopera c’avevano sempre dissanguato emozionalmente, turbandoci nel loro essere furentemente sleepers. Quei film che t’entravano sottopelle, nell’asma dell’anima meandrica squarciata da tanta venustà turbativa, ché non si scollavano più dagli occhi pulsanti e dal cuore nostro dell’interminabilmente adorarli in acute vertigini dell’ammirazione più incantata.

Sì, Al di là della vita è l’ultimo, vero capolavoro di Scorsese. Anno 1999, Scorsese opziona l’allucinata e allucinante novella di Joe Connelly da noi tradotta come Pronto Soccorso, affidandosi al suo folle scudiero Paul Schrader, che riesuma, elucubra e vivifica incendiario il loro masterpiece assoluto Taxi Driver, aggiornandolo, spostandolo e retrodatandolo ai primi anni novanta, in una New York degradata, cimiteriale ma ripulita dallo spietato sindaco Rudolph Giuliani.

Un’altra storia notturna, come Taxi Driver, un’altra parabola delirante e pregna, debordante di umorismo nero come Fuori orario, scandita in sussulti tremolanti, fievolmente fluida e poi cesellata con vigoria, destrezza spericolata da un’infermabile e infernale macchina da presa mobilissima e mai doma, spalmata sull’intaglio sottilissimo d’immagini sghembe, stroboscopiche, fra neon lampeggianti, sirene intermittentemente allineate al brivido corrosivo di anime impazzite, fra catartiche ed esplosive notti livide immerse nella fotografia sbiadita e poi satura, iridescente di Robert Richardson.

Martin Scorsese vuole Edward Norton nei panni del protagonista perché il Norton di quel periodo è praticamente la reincarnazione di Robert De Niro. E il protagonista di questo trip acido e romanticamente doloroso altri non è che il fantasma riposseduto di Travis Bickle, un Don Chisciotte smarrito nella languidezza esiziale del suo perenne tormento esistenziale, assalito da inauditi sensi di colpa, afflitto da un’insanabile, ferale, insistente insonnia spettrale.

Ma Scorsese deve girare con la Paramount e Nicolas Cage, il quale proprio con la Paramount aveva firmato un contratto che lo legava a tre film da interpretare, dopo Face/Off e Omicidio in diretta, libero in quel momento da altri impegni, è stata la scelta pressoché obbligata della produzione.

E, in fin dei conti, la scelta forzata di Scorsese non si è rivelata poi così disdicevole perché a quei tempi Nicolas Cage era genialmente stralunato, iracondo e tenero, buffo, patetico, disarmonicamente aggraziato nelle sue movenze ipercinetiche, dinamicamente (dis)articolate come un invertebrato clown sardonico e sbeffeggiante, la faccia giusta per Frank Pierce, paramedico allo sbando in una New York sull’orlo del collasso nervoso. E i suoi occhi azzurro-verdi son stati un abbinamento fotocromatico strabiliante fra luci e colori liquidamente magmatici.

Frank non è riuscito a salvare una ragazza tossica, morta di overdose, in una freddissima mattina di neve le si è accasciata fra le sue braccia impotenti e mortificate. E da allora vaga come un ectoplasma in una città-metropoli dedalica, scura, tetra e al contempo variopinta, pervasa dalla violenza spasmodica, con sguardo sommesso e poi inferocito, e platonicamente, nella sua pietas, s’innamora di una ragazza bionda di nome Mary Burke come la madonna (Patricia Arquette), il cui padre attende di risvegliarsi dal coma.

In questa sua missione viene accompagnato da tre colleghi più fuori di testa di lui, tre angeli diabolici e sgangherati, degli ubriachi di lavoro a cui il proprio difficile mestiere ha dato al cervello. Incarnati da tre caratteristi da applausi a scena aperta, il grasso e smisurato John Goodman (Larry Verber), Ving Rhames (Marcus) e quell’istrione fumantino e rubicondo di Tom Sizemore (Tom Wells) prima che lo perdessimo…

Dolore, dolore e ancora dolore. E poi i fuochi artificiali nell’immensità luminescente di grattacieli che lambiscono carezzevolmente il cielo, nella vastità della vita sterminata nel suo disperato protendersi verso l’irraggiungibile, vicinissimo e lontano al di là…

Siamo figli delle stelle e dei loro soavi, martorianti ruggiti. Sin al termine di ogni notte.

Di ogni cuore vivo o già morto, resuscitato o crocefisso.

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di Stefano Falotico

 

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