Maniac, la recensione della serie Netflix di Cary Fukunaga con Emma Stone e Jonah Hill: capolavoro o incredibile bufala?
Ebbene, l’ho vista con molta calma, ho fatto sì che ogni episodio potessi snocciolarlo con doverosa oculatezza, senz’avventurarmi in recensorie conclusioni affrettate, per non arrivare a un giudizio finale avventato o frettoloso. Riguardandola poi meticolosamente, scandagliando dettagliatamente ogni fotogramma per provare a addivenire a un’opinione critica il più possibile obiettiva e imparziale, senza far sì che le votazioni alte, ad esempio su Rotten Tomatoes, potessero depistarmi o subdolamente influenzarmi.
Insomma, Maniac, la nuovissima serie per la regia di Cary Fukunaga che sta spopolando su Netflix dal 21 Settembre, data della diffusione di tutti gli episodi su tale piattaforma di streaming, la più famosa al mondo, con protagonisti il premio Oscar Emma Stone (La La Land) e un dimagritissimo Jonah Hill (The Wolf of Wall Street), è davvero così bella come molti sostengono che sia, oppure è una furba operazione che gioca palesemente, in modo ipocritamente sfacciato e in maniera un po’ ricattatoria, su una delle tematiche che pare tanto attraggano la curiosità degli spettatori contemporanei? Cioè la malattia mentale, la mental illness, come dicono gli americani.
Oramai, gran parte della popolazione del nostro pianeta, soprattutto quella occidentale, travolta dai ritmi freneticamente isterici di una società sempre più competitiva che non lascia un attimo di respiro e ci bombarda con così tanti variabili, indistricabili messaggi contradditori, da recentissimi studi scientifici, è stato appurato che soffra di qualche disturbo psichico, più o meno grave. Alienati come siamo in questo caravanserraglio di etiche distortamente ambigue, sommersi da richieste inaffrontabili e svuotati nella nostra umana essenza da modelli plebiscitariamente basilari di giustezza irraggiungibili, schiacciati da ingranaggi sociali industrialmente protesi verso un ideale illusorio e chimerico di produttività ed efficienza impeccabili. Meccanizzati e sviliti nel nostro più profondo e intrinseco io, così volgarmente spalmato e omologato in plastificati schemi precettivi di linee comportamentali che fuorviano le nostre unicità, inglobandoci, dunque anche mortificandoci e forzatamente propendendoci verso un’idea di coronamento esistenziale spesso e volentieri faceta e menzognera. Invogliandoci a una contraffatta visione delle cose in perenne mutamento giornaliero per cui oggi vai bene oggi e domani non più, perché non ti sei adeguato alle nuove, soventemente astratte e utopiche, disposizioni ingannevolmente miserabili di un mondo progressivamente sull’orlo del collasso emotivo.
Facile perciò, in questo tipo di società, sbrindellarsi nell’animo e destrutturarsi, sciogliersi come neve al sole, essere feriti e trafitti traumaticamente nella nostra purezza, venir così fagocitati e assorbiti da inconciliabilità emozionali che ci portano a romperci, a crollare in esplosioni incontrollabili dalle disarmoniche e avvilenti scissioni conflittuali, generanti poi assurde piscosi e fobie degenerative da bloccar subito e mettere a freno prima che sia troppo tardi. Noi, resilienti combattenti dei nostri cuori in viaggio nel perpetuo viverci con dolore e ingestibile ansietà, naufraghi lesi di questo spasmodico, agitatissimo mar in burrasca, cavalieri solitari e instabili della baraonda indiavolata d’input e output tanto umanamente inattuabili, figli del nostro vuoto in un mondo a sua volta cacofonicamente discordante, confuso e malfermo.
Maniac…
Su vignette animate di cellule fertilizzate e la crosta terrestre in lontananza bersagliata da astronomici, grossi, misteriosi meteoriti, nel suo evolutivo, amniotico compiersi morfologicamente, si parte con la voce off che c’illustra brevemente l’origine, appunto, della nostra umanità, in senso più metaforicamente lato, la natura della nostra inevitabile complicatezza, la craterica genesi creaturalmente mutevole della nostra immane complessità di esseri viventi pensanti. Dunque fallaci e imperfetti.
Annie invece è una donna sola che vive con enormi difficoltà, anche economiche, la sua difficilissima marginalità e non riesce più a riprendersi dalla tragica morte della sorella alla quale era intimamente legata.
Così, entrambi decidono di darsi a un avanguardistico trial clinico ove sperimenteranno un nuovo farmaco rivoluzionario di ultimissima generazione. Messo a punto da un’equipe di scienziati presieduta dallo strampalato, buffo Dr. James K. Mantleray (Justin Theroux), un uomo che non crede alla medicina ufficiale e considera la psicanalisi oramai roba medioevale, superata, deleteria, assolutamente inutile e obsoleta.
Mantleray infatti ritiene di aver sviluppato, miracolosamente, tre pillole della “felicità” in grado di restaurare le psiche corrotte e danneggiate, riconfigurandole chimicamente al fine di poter ripristinare l’armonia perduta di tutti i “malati”.
E in questo centro di sperimentazione avveniristico, in tal microcosmo ucronico, ove imperano apparecchiature computerizzate degne di 2001: Odissea nello spazio, nel quale le infermiere e le dottoresse indossano camici piuttosto simili a quelli esibiti nel capolavoro di Kubrick, le imperscrutabili, guastate menti dei coraggiosi e umanissimi pazienti, deterioratesi per qualche trauma di troppo o a causa d’una serie sfortunata di circostanze sfavorevoli, saranno riequilibrate alla lor originaria, immacolata bellezza adamantina spaccatasi e poi magicamente ricomposta?
Maniac può essere associato, per analoghi stilemi e per certi aspetti inequivocabilmente affini, al Cinema migliore di Terry Gilliam, ha cadenze narrativo-stilistiche assai paragonabili alla finissima poetica oniricamente vellutata di Michel Gondry, e a tratti, contrappuntato da stupendi pezzi jazz malinconici, ricorda perfino Woody Allen. Ma soprattutto, a mio modesto parere, assomiglia tanto alla follia visionaria proprio del già succitato Stanley Kubrick. E questo mio paragone, quest’apparentemente azzardato raffronto speculare è evinto nell’episodio 4, Benvenuti da Sebastian pellicce, un “doppio sogno” à la Eyes Wide Shut in salsa comicamente melanconica. Forse la puntata più poetica e deliziosa, con uno strepitoso e debordante Glenn Fleshler, sì, proprio lui, Errol Childress della prima stagione di True Detective, ch’era firmato, ça va sans dire, neanche a farlo apposta da Fukunaga.
L’operazione è terribilmente affascinante, però Maniac probabilmente mette troppa carne al fuoco. E, tutto sommato, nonostante la sua intrepida stranezza, fallisce il bersaglio. Davvero mai focalizzandosi su un fulcro narrativo solido, preciso e centrato. Ma disgregandosi, appunto schizofrenicamente, in tante piccole storie (come l’innocuo, patetico episodio 5, altra materializzazione visiva delle fantasie represse di Owen ed Annie), in fin dei conti, poco coinvolgenti.
Adagiandosi, con esagerato compiacimento, su dialoghi chiaramente, freddamente studiati a tavolino, afflitto da una lentezza narrativa esasperante e alla lunga noiosissima. Nonostante gli episodi non durino più di quaranta minuti cadauno (anzi, due ne durano appena solo venticinque!)
Gli attori sono comunque straordinari. Emma Stone è bravissima, si conferma un talento eccezionale, Jonah Hill è fenomenale con la sua recitazione tutta trattenuta. Ma anche Justin Theroux, criticato invece perché reputato troppo caricaturale ai limiti della demenzialità, fa la sua ottima figura.
Però, e me ne dispiaccio, Maniac vuole un po’ prendere da tutte le parti e non riesce a essere, onestamente, né un pamphlet realmente corrosivo e ammonitorio sulla disfunzionalità della nostra stupida società falsamente sana, né di conseguenza un veritiero, potente pugno allo stomaco.
Insomma, non lascia il segno.
Rimanendo in superficie come un artefatto giochetto tanto suadentemente seduttivo quanto allo stesso tempo inoffensivo e politicamente corretto e pulito, perfettino. Asettico.
Invece, credo che avessimo bisogno di qualcosa di decisamente meno ludicamente ammaliante ma vigorosamente introspettivo, perfino scabroso e destabilizzante.
Ecco la diagnosi valutativa: Maniac risulta ottimamente funzionale dal punto di vista formale ma è carente di emozionalità viscerali e sentite, anaffettivo nei riguardi dei sentimenti del pubblico, inappuntabilmente allettante ma dissociato, depauperato in tanti sketch sconnessi privi di coesa, empatica, organica amalgama.
Ma è da vedere, semmai rivedibile.
Breve postilla informativa: oggi si fa un gran parlare, appunto, della cosiddetta, fantomatica malattia mentale. Secondo la Treccani, la malattia mentale è una sindrome o modalità comportamentale o psicologica, clinicamente significativa, associata a un malessere o a una menomazione, da considerarsi manifestazione di una disfunzione comportamentale, psicologica o biologica della persona. Non esiste una definizione soddisfacente che specifichi i confini precisi del concetto di m.m. (o disturbo mentale, come talvolta si preferisce chiamarlo).
Cioè il concetto di malattia mentale è molto vago ed è difficile pronunciarsi con esattezza millimetrica sul suo significato assoluto, essendo molteplice e soggetto a sfaccettate tonalità sintomatiche. Più o meno, chiunque di noi, durante le diversificate fasi della nostra esistenza, soffre di momentanei disagi, dovuti a eventi molto stressanti oppure a estemporanei attimi di “follia” che alterano i nostri rapporti sociali e inficiano la nostra virtuosa, connaturata armonia col mondo.
Ma, in senso più propriamente generale, la psichiatria stima come persona “malata di mente” un individuo la cui sofferenza psichica, oramai radicata e spesso inguaribilmente sorpassabile, supera le soglie normali di criticità. Influendo in modo pressoché totale o grave, invalidante sul suo proficuo funzionamento, soprattutto sociale. Purtroppo, checché se ne dica con grande ignoranza, la malattia mentale, intesa in questo senso, esiste ed è assai debilitante. Non date retta a chi ostinatamente, poco esperto in materia, la giudica come un oscurantistico spauracchio inventato dall’impietosa, psichiatrica scienza scriteriata e immondamente crudele. E non è sintomo, come invece i superficiali o i disinformati affermano, di mancanza di volontà, d’inettitudine, di debolezza caratteriale, di tediata mestizia o indolenza inquietamente e furiosamente nevrotica. Va detto però, proprio per ricollegarci al messaggio disorganicamente espresso da Maniac, che è di frequente la società, appunto con le sue richieste alienanti e mortificanti, insostenibili per molte persone, innatamente non adatte a questo sistema di valori, o meglio disvalori, improntati unicamente all’effimera ricerca d’una floridezza vitale molto fasulla e ipocrita, a scatenare il disagio. Ad alimentare ansie e malesseri intollerabili.
A creare una barriera fra noi e il mondo esterno. Dunque, torniamo al solito ragionamento iniziale. Se il mondo è sbagliato, chi è davvero il malato? La persona additata che si vive come tale oppure il mondo stesso, incapace di venire incontro alle esigenze, vivaddio benigne e naturalissime, di chi non è giustamente pronto a parametri troppo schematici e totalitaristici di competitività e adeguatezza?
E, su questo splendido dubbio, interroghiamoci e riflettiamo…
Ciò che, come detto, fa assai poco Maniac.
Una bella serie, sì, ma non possiamo promuoverla appieno.
Perché ha edulcorato con troppa faciloneria, ma allo stesso con esagerato bizantinismo espressivo, un argomento che non si può semplificare né in dieci episodi e neppure in un fascinoso, sterile esperimento e divertissement intellettualistico che, per quanto dedalico nella sua sofisticata architettura diegetica, non graffia e non turba come avrebbe dovuto. Naturalmente, se poi siete coloro che da una serie desiderano soltanto intelligente svago, accomodatevi.
Maniac, in ciò, è incantevole. E vi appagherà.
di Stefano Falotico