Racconti di Cinema – Dark City di Alex Proyas
Illustrazione di Aidan Roberts.
Oggi parliamo di un film alquanto incompreso e purtroppo passato inspiegabilmente sotto silenzio ai tempi dalla sua uscita.
Ovvero, Dark City di Alex Proyas, film della durata di un’ora e quaranta minuti di cui esiste anche una versione director’s cut con 120 secondi in più.
Avvalendosi di un attore non molto conosciuto ma belloccio con tanto di strabismo di Venere, Rufus Sewell, reduce però dall’Hamlet di Branagh, e di un cast alquanto prestigioso, comprendente la stupenda Jennifer Connelly, Kiefer Sutherland e William Hurt, Dark City è stato distribuito in Italia, tramite la New Line, il 25 Settembre del 1998.
A quattro anni di distanza dall’opus numero 1 di Proyas, il famigerato cult Il corvo. Film indubbiamente bello, anche se girato in stile videoclip, in linea un po’ con l’estetica da MTV dei primi anni novanta, diventato celeberrimo, come sappiamo, soprattutto per la tragedia occorsa sul set al compianto Brandon Lee.
Chiariamoci… Assodato che Il corvo è un film comunque di forte fascino, in cui era già ravvisabile l’impronta stilistica di Proyas, propensa a riprese cupamente notturne e ad atmosfere torbide, Dark City gli è decisamente superiore, una spanna sopra.
Tratto da un soggetto originale di Proyas e sceneggiato dal medesimo assieme a Lem Dobbs (L’inglese, Delitti e segreti) e David S. Goyer, writer, quest’ultimo, dell’inevitabilmente fallimentare Il corvo 2, dei Batman di Nolan, di Constantine con Keanu Reeves e dell’immediato reboot di Terminator di Tim Miller, oltre che dell’annunciato, atteso da una vita The Sandman.
La peculiarità di tali suddetti sceneggiatori, specializzati in film fumettisticamente avveniristici, sofisticamente noir e spesso fantascientifici, ci fa comprendere sin dapprincipio che Dark City, attingendo intelligentemente e con molta delicatezza da Il tunnel sotto il mondo del nostro Luigi Cozzi, a sua volta basato sull’omonimo romanzo di Frederik Pohl, traendo parecchi spunti perfino dall’immenso Philip K. Dick, dal suo Tempo fuor di sesto, ispiratore anche di The Truman Show di Peter Weir (su script di Andrew Niccol), è un affascinantissimo pot–pourri che, grazie alla fotografia sommessamente buia e livida del grande Dariusz Wolski e soprattutto alle bellissime scenografie espressionistiche di Patrick Tatopoulos e George Liddle, efficacissimo mix fra i capolavori assoluti Metropolis di Lang e Blade Runner di Ridley Scott, sa immergerci in una storia fuori dal tempo lugubremente angosciosa e spettrale.
Trama…
Un uomo, John Murdoch (Sewell) si risveglia in una vasca da bagno e si accorge di non ricordare nulla della sua vita. Un’amnesia pericolosa che potrebbe creargli non pochi guai. Lo psichiatra Schreber (Sutherland) gli telefona per metterlo in allarme, avvisandolo che degli uomini dai volti inquietanti lo stanno cercando.
Sulle tracce di Murdoch v’è anche il duro ispettore Frank Burnstead (Hurt), convinto che Murdoch sia un serial killer responsabile di molti omicidi. Murdoch ha una moglie, la melodiosa, sfolgorante, avvenentissima cantante di night club Emma (Connelly).
La città è tenuta sotto scacco da degli alieni (simili nel look ai supplizianti-Cenobiti e a Pinhead dell’Hellraiser di Clive Barker), i cosiddetti Stranieri, esseri parassitari, trasferitisi nei corpi dei cadaveri umani, i quali hanno colonizzato la metropoli. E che, alla midnight esatta di una notte senza fine, fermano le lancette degli orologi, ipnotizzano gli abitanti della città, facendoli cadere in trance, e modificano il paesaggio urbano. Per carpire dagli uomini addormentati delle informazioni preziose alla loro sopravvivenza.
L’unico che non si “accorda”, cioè non cade in stato comatoso è proprio John Murdoch, dotato di psicocinesi e poteri eguali, se non superiori, a quelli degli Stranieri. Il quale ora è in fuga dai persecutori e desidera solamente poter ricordare tutto e riabbracciare la sua amatissima moglie.
La prima ora del film è molto suggestiva, di potente impatto visivo. Purtroppo, nel finale, il film perde molto del suo fascino e Proyas raffazzona un duello, quasi da cartoni giapponesi, affrettatamente effettistico, troppo sbrilluccicante e posticcio di computer graphics, addirittura leggermente bambinesco.
E la granitica, fascinosa aura maestosa del suo incipit e l’aura magnetica del film si scinde diegeticamente in una narrazione progressivamente confusa, così come le ammalianti, turgide e fulgide atmosfere di partenza s’illanguidiscono e smarriscono in un happy end mielosamente hollywoodiano, per quanto ambiguo e kafkiano.
Peccato davvero. Perché, sino a un quarto d’ora dalla fine, Dark City rimane un gran bel film. Una piccola gemma.
E il personaggio di Murdoch aveva profeticamente anticipato il Neo/Keanu Reeves di Matrix.
Proyas, da allora, dopo aver perso i finanziamenti di Paradise Lost, fantasioso adattamento dell’epico poema omonimo di John Milton, con Bradley Cooper nei panni di Lucifero, ha dapprima arrancato con il confuso Segnali dal futuro, affondando quindi col brutto pasticcio Gods of Egypt con Gerald Butler e lo stesso Sewell in un ruolo minore. E adesso in pochi, produttori in primis, vogliono investire sul suo talento.
A proposito proprio di Rufus Sewell… all’epoca, era un fiorente attore un po’ monolitico e legnoso ma fotogenico e di belle speranze. Però non si è mai davvero affermato.
Kiefer Sutherland, a differenza del solito e della sua cattiva fama di attore indisponente sul piano prettamente recitativo, è qui bravo, così com’è perfetto William Hurt.
E Dark City è illuminato dalla grazia d’una Jennifer Connelly al top del suo abbacinante splendore conturbante e delle sue rigogliose forme procaci, prima che si ammalasse di anoressia e che il suo sguardo, da stordente, sexy e ipnotico, s’intellettualizzasse in una posa da emaciata signora altezzosa e un po’ antipatica.
Dark City non è un capolavoro ma è comunque un film da rivalutare al più presto.
di Stefano Falotico