Kenneth Branagh è William Shakespeare perché è il più grande: Dio è nato, Dio è morto, evviva i dannati
Sono davvero pochissimi gli attori e i registi che stimo.
Col passare del tempo, i miei gusti cinematografici si stanno sempre maggiormente raffinando e sono meno ruffiani nei confronti di me stesso. Che, con lucidità spaventosa, si guarda perennemente allo specchio e non rinnega i suoi timori, le sue ansie giammai sopite, vaga oggi fantasmatico e domani acquiescente in questo spettrale orrore ch’è la vita umana, soprattutto quella occidentale. Indaffarata com’è a rivaleggiare, a vivere di tribali competizioni bastarde, a recidere le coscienze che si son dissociate dal pensar comune di massa.
E le ricatta, le soffoca, le reprime e le castiga con abominevoli mostruosità figlie appunto del falsissimo, osceno retroterra culturale di cui è imbevuta la nostra società. Improntata a idolatrie effimere, a gioie frivole, al culto ostinato della perfezione estetica e fisica, al vivandar di burrosi culi, innalzata a monumento putrido delle vostre anime da tempo immemorabile corrotte, prostituite, plastificate, indirizzate a un finto benessere che io vi dico non vi ha reso felici ma soltanto delle maschere annacquate nella mortifera contentezza vacua della vostra esistenziale immondizia abissale.
Sconcertato sempre di più, passeggio al mattino, in questo mattino plumbeo in cui rimescolo le mie angosce lunatiche e, da strampalato pagliaccio scombiccherato, nuoto tra la folla di un bar, sorseggiando lo zucchero delle vostre vanità ributtanti.
Sì, Shakespeare è stato il cantore per antonomasia della tragedia della condizione umana. E anch’io, parimenti a Kenneth Branagh, penso che sia il più grande.
Dostoevskij, enorme, ma sostanzialmente era un solipsista, ripiegato sulle sue afflizioni a vergarle in prose sanguinarie del suo agghiacciante disagio di sentirsi maledettamente vivo e saggio. Inquieto e dunque inquietante, ombelicale nel farsi autoritratti letterari a elevazione e sublimazione, forse inutile, del suo esser già un morto vivente, un ectoplasma illuminato da una sana pazzia catartica.
Charles Dickens, uno scrittore pauperista, principe delle marginalità, delle storie ove i protagonisti sono degli orfani, dei diseredati, dei giganti in un mondo di nani piccolo-borghesi. Ma anche lui, così come Dostoevskij, era autoreferenzialmente ossessionato dalle solite, stantie, deprimenti tematiche.
William Shakespeare invece, pur rimanendo estremamente coerente con la sua radicale, lapidaria visione del mondo, era una sorta di dio spirituale, un inglese sul Monte Sinai a decretare il suo brutale, schietto decalogo.
Ad avvertirci che siamo tutti figli di un inferno in terra, un inferno porco. E, quando pensiamo, illusi, beoti, rimbambiti da troppe chimere, di essere arrivati alla vetta, ecco che ci piomba addosso una devastante tegola che ci flagella.
Un’inaspettata o forse annunciata tragedia. E William scriveva con classe impari, nessuna parola nei suoi testi è fuori posto, vivificato com’era il suo animo da un’ascesi contemplativa di natura mistica, da uomo che, coltivando insalata nell’orto, non sentiva la necessità, perciò immotivata e a lui appunto non connaturata, di vivere una cosiddetta frustrante vita normale sbagliata. O solo, come i più, sbadigliata…
E osservava, si struggeva nelle storie da lui inventate, romanzando e magnificando l’amore, forgiando di strepitosa energia il suo cuore nello strofinarlo dolce e poi amarissimo in vicende contorte, inzuppandole d’intrighi di corte.
Un genio. E, come quasi tutti i geni, un povero Cristo sebbene fosse ricco. Un esimio drammaturgo insuperabile, un indagatore delle bugie e un sapido detective delle nefandezze umane, dunque disumane.
Io, nella mia vita, ho avuto molti attori preferiti. Sapete tutti che il mio idolo è stato, per tantissimo tempo infinito, Robert De Niro. Ma non poco mi ha deluso questo Bob. Che ora, a prescindere da The Irishman, annaspa solamente nella patetica e parodistica celebrazione del suo inossidabile mito.
Molti attori, per quanto ammirati, imitati, osannati, a mio avviso son soltanto delle puttane. Dei mercenari che prestano le loro bellezze ove a lor più conviene e svendono i loro talenti, veri o presunti che siano, di qua e di là senz’alcuna linea direzionale. In alcuni film sono magnifici, come Matthew McConaughey, in altri, come lo stesso McConaughey, fanno schifo al cazzo.
Branagh, invece, per quanto non tutti i suoi film possano dirsi riusciti, per quanto alcuni di essi siano calligrafici e leziosi, per quanto sia un egomaniaco, un narcisista insopprimibile, è un grandissimo.
E mi piace scherzare su questa sua mimesi nei panni di Shakespeare in All Is True perché il suo look mi ricorda tanto la faccia dal naso oblungo di Ben Kingsley. Ah ah.
Nella mia vita, amici carissimi, ne ho viste tantissime.
Ragazzi grandiosamente belli, sanissimi, con tante stupende virtù, caduti in depressione. Immalinconiti da una società cinica e ladra. E allora ecco che li sbattono a curarsi.
Sì, a sorbirsi tristemente farmaci repressivi, a cuccarsi contenzioni fisiche, a esser distrutti nella, vivaddio, squillante sessualità abbacinante, troppo aggressivamente ruspante che viene reputata dai cretini qualcosa di rivoltante. Mortificati in deludentissimi percorsi angarianti la loro speciale personalità ribalda.
Oh, padri, madri, non portate mai un figlio da questi pazzi curatori dell’anima, da questi “strizza-uccelli”.
Lasciate invece che le loro meravigliose diversità si coagulino alla bellezza del creato, lasciate pure che si arrabbino, che soffrano, che siano forti, intrepidi, timidissimi o romantici ai limiti della scemenza più caramellosa. E poi dilapidino le loro stesse bellezze in gioviali, affabilissime demenze godibilissime.
Perché è vita, questa è la vita, non si può anestetizzare la vita, imbrigliandola in qualche vetusta, oscurantistica, sciocca patologia scriteriata.
E voi, uomini e donne che vi credete adulti! Ma qual è la vostra vita? Oggi è domenica, è aperto il Mercatone Uno, tu, donna, vai matta per l’IKEA e quel bagno pulisci e ripulisci per renderlo splendente quando, dopo tre minuti, tornerai a inzozzare il water con la cagata tua incarnata tanto fetente.
Un lavoretto per coprirvi di una filistea dignità sociale. E poi tanti scheletri nell’armadio, tanti sorrisi ipocriti, tanti giochini, tante invidie, tanti odi, tante balle.
E, fra un balletto, un nuovo vestitino, una partitina alla tv, una mangiatona, una statuina nella mangiatoia, un apprezzamento bavoso a un’altra troietta, una pisciatina e una scopatella, oh, evviva la vita che è una merda ma val la pena dir ch’è bella. Perché guai a dir il contrario. Potresti esser emarginato, offeso, insultato.
Quante illusioni, oh, scemi, vi eravate creati. E la batosta arrivò per tutti. Per me e anche per i “grandi”.
La vita è una tragedia. Dovevate impararlo subito. Non piangete sul latte versato, sull’altare rubato. Sulla cattiveria ora vostra ritornatavi.
E questo è quanto.
Anzi no. Tutti i film di Branagh sono shakespeariani. Anche Thor lo è. E pure il suo Hercule Poirot altri non è che un uomo che s’immerge nell’orrore delle bassezze dei miserabili.
E, in Frankenstein di Mary Shelley, si respira grande vita. Quando la madre di Frankenstein muore di parto, sono rimasto scioccato.
È allora che Frankenstein impazzisce.
E diventa il più pazzo di tutti, il più grande.
Vuole sfidare Dio e Dio nella sua anima è invero già morto.
di Stefano Falotico