La casa di Jack, recensione
Finalmente, dopo essermelo perso in sala, ho trovato la maniera di vedere La casa di Jack, il film certamente più discusso dell’anno che, inevitabilmente, visto il notevole battage pubblicitario riservatogli qui in Italia, qua da noi ha infatti incassato abbastanza. Poiché il nostro è un Paese tanto estremamente moralista e puritano nella falsa concretezza dei rapporti interpersonali della quotidianità più farisea e moralmente lestofante quanto morbosamente attratto da tutto ciò che, esternamente, così come può essere il grande schermo, rappresenta solo una proiezione innocua dei propri fantasmi interiori mai confessati, segretamente, viscidamente celati che al contempo si palesano visivamente come fascinazione passiva verso l’incommensurabile più efferatamente ignoto e giornalmente, ipocritamente ripudiato.
L’italiano medio è terribilmente insincero e subdolo nella vita di ogni dì e poi ama liberarsi dalle sue paure, esorcizzandole nel Cinema. Perfino allietandosi di tanto tripudio suo maniacalmente omicida verso la purezza del suo animo e della sua menzognera coscienza già dapprincipio rinnegate attraverso lo specchio deformante, riflessamente egotista e la patina d’un tetro quieto vivere pusillanime, retoricamente però auto-elogiativo della propria inesistente nobiltà fasulla d’un cuore putrido da lui stesso santificato in illusa beatitudine narcisistica ad apparente discolpa odiosamente bugiarda dei suoi madornali, piccoli e grandi peccati imperdonabili.
Quindi, in quest’incessabile, ripetitiva incensazione celebrativa delle sue contraddizioni orripilanti, ama crogiolarsi nella reiterazione meccanica del suo proverbiale, tedioso, sofferente, patetico e allo stesso tempo piacevole, irresistibile, abitudinario modus vivendi simmetricamente associabile all’infido, vanagloriosamente auto-ingannevole modus operandi del protagonista di questa macabra storia pseudo psicanalitica, La casa di Jack. Mr. Sophistication.
Il film inizia con un glaciale schermo buio interrotto all’improvviso dalla voce, oserei dire, terapeutica di una sorta di Freud ante litteram, Verge (Bruno Ganz), il quale sta sottoponendo a un catartico, pacato terzo grado il suo paziente inquisito e nell’anima indagato, Jack (uno spettrale, macilento, flemmatico e poi scalmanato Matt Dillon).
Scopriremo alla fine che i due altri non sono che la trasfigurazione onirica e grottesca di Dante Alighieri con tanto di abito da Cappuccetto Rosso delle fiabe più nere, ovvero Jack, lupo mannaro con la mannaia, e il poeta Virgilio della Divina Commedia.
Ganz, durante le interminabili due ore e trentacinque minuti di questa pellicola infinitamente pallosa, smorta e che non trasmette alcun brivido, ha voluto sviscerare e vivisezionare, come in una specie di seduta psicoterapeutica sui generis, l’anima dannata d’un efferato, truculento peccatore impunito. Un uomo diabolicamente incarnatosi nel Male (s)fattosi dei suoi atroci delitti d’assassino irredento e irrecuperabile. Privo d’empatia e sprovvisto d’ogni umano pentimento.
Un esteta dei suoi abomini, un ingegnere afflitto da manie igienico-compulsive che sognava di fare l’architetto e ha invece sublimato, con meticolosità certosina spaventosamente ammirabile, ogni suo inappagamento esistenziale, forse sessuale, costruendo la sua mostruosa casa e la sua meschina bottega degli orrori, soprattutto rimodellando utopisticamente lo psicopatico suo inconscio fratturato e non più strutturabile nel mattare le persone e nel metter mattone su mattone sanguinario alla sua idolatra santificazione col delirio e la ferocità della sua incontrollabile smania d’onnipotenza, simulacro e edificazione della sua raffinata cattedrale solipsisticamente terribile.
Cioè la stessa cosa che ha fatto Lars von Trier. Ha utilizzato l’etica, no, l’esca o meglio l’escamotage di un banale film su un serial killer eccentrico come specchietto pretestuoso per le allodole al fine e fine a sé stesso d’interiorizzare, lui direbbe artisticamente, i suoi depravati demoni fantasiosamente e fastidiosamente perversi, appoggiato in questo dai suoi magnificatori ammiratori altrettanto glorificatori del bacato concetto di esegetica estetica da lor distortamente applicata in tal allegorica, baldante, cieca esaltazione incessantemente, indefessamente incensante il loro idolo von Trier, enunciando così facendo il sintomatico svelamento d’uno sviamento semantico proprio della Settima Arte più fallacemente, colpevolmente fraintesa.
Sì, La casa di Jack è il classico autoritratto vontrieriano osannato come capolavoro assoluto e opera magna assolutamente intoccabile, principalmente pre-giudicato tale e innalzato massimamente dai suoi aficionado imbattibili.
Ché avevano già decretato, a priori, che sarebbe stato un capolavoro ancora prima d’averlo guardato.
E, sebbene a visione completamente avvenuta, in cuor loro sapevano di essersi trovati soltanto di fronte al solito von Trier auto-encomiastico, hanno violentemente ricusato la patologia folle di cui soffrono incurabilmente, cioè di essere solamente dei malati del Cinema più imbroglione e malsanamente “arty”.
Qui von Trier cita a sproposito colui che è considerato unanimemente il più grande pianista di tutti i tempi, ovvero Glenn Gould, va a parare su William Blake, i cui sonetti maledetti eppur innocentemente lievissimi e puri come il diamante umanistico più sopraffino c’entrano come i cavoli a merenda in questa sbracata, sfilacciata vicenda di lame affilate stupidamente contundenti.
E inscena perfino un siparietto a mo’ di Quark di Piero Angela che noi spettatori savi a lui sprezzanti potremmo battezzare tragicamente in questo farsesco periodo ridicolmente prolisso come il suo noiosissimo La casa di Jack:
le ombre fenomeniche, sempre meno fenomenali di un allampanato, disturbato danese che, per spiegarci la personalità di un matto, d’un assassino seriale frustrato, paragona appunto la sua mentalità deviata a quella di un normale drogato e di un incolpevole, povero fradicio ubriaco ove l’ombra rappresenta la crescente, ricrescente scia di sangue del suo animo crudelmente, irrefrenabilmente insufficiente di self control emozionalmente, socialmente afflitto da deficienza.
La casa di Jack, sì, è un film comunque importantissimo. Perché è la fotografia spietata di come si sia ridotta la cosiddetta Critica erudita, appunto boriosamente radical–chic e sofisticata per essere arrivata a definire Arte questa boiata pazzesca, in ogni senso sbudellante del termine, questa cagata sterile come il cesso d’oro di Cattellan.
Il film di un genio impressionante, sì.
Perché von Trier, dopo tutti i padri della psicanalisi, è riuscito nell’impresa impossibile di reinventare la psichiatria a piacimento della sua Gioconda, girando un film plasmato a immagine e somiglianza del suo traumatico e penoso concepire la vita e sé stesso in modo stupendamente morboso nella sua illimitata voglia di protagonismo, ad alter ego del suo io incorreggibile. Un genio davvero tremendo… come no.
Elevatosi spiritualmente nella svilente, patologica apologia dolorosa di sé stesso, mascherando i suoi turbamenti dietro una pellicola che di perturbante non ha nemmeno le scene cruente.
Perché, anche nella versione integrale e non censurata, il suo campionario di antropofagie sfigurano pure dinanzi a un thriller e a un horrorino odierno di terza mano.
L’unico a non uscirne massacrato è il grande Matt Dillon. Poiché, malgrado la turpitudine tout–court di von Trier, il suo volto ossuto è sempre più maturo ed espressivo.
Sì, sostanzialmente se il film si lascia vedere, nonostante tutto, è grazie a Matt.
Mentre von Trier è dunque, come Jack, un mad?
No, un regista di gran talento che purtroppo s’è perso nella sua triste depressione, soprattutto cinematografica.
di Stefano Falotico